Newsletter

L'ora della svolta Cinque tabù da affrontare per non rendere vana l'espressione "è ora di aiutare le imprese" Che cosa serve davvero alle imprese per crescere, in un paese - l'Italia - in cui nel dibattito pubblico si discute di cuneo fiscale, Pnrr e reshoring ma, come ha scritto anche il Foglio in questi giorni, fatica a vedere il filo rosso che lega produttività, innovazione e benessere dei territori? L'evidenza emersa dall'ultimo rapporto Unioncamere-Symbola offre una bussola preziosa. Quasi la metà delle manifatturiere (44 per cento) ha scelto di competere puntando su "coesione": reti stabili e fiduciarie che coinvolgono dipendenti, fornitori, clienti, scuole, terzo settore, istituzioni locali. Chi adotta questo modello cresce di più del resto del sistema (+11 per cento di fatturato, +10 per cento di occupazione) ed eccelle sul green (+20 per cento), sulla ricerca (+24 per cento) e sul digitale (+15 per cento). Primo messaggio alla politica: la competitività oggi è un fatto relazionale, non soltanto tecnologico o fiscale. Se vogliamo moltiplicare le aziende di successo dobbiamo investire in capitale sociale e non limitarci al taglio delle tasse. Ogni curo destinato a servizi di animazione territoriale, competence center, incubatori di filiera rende quanto - se non più di - un'agevolazione spot. Secondo vettore cruciale: credito paziente. Le imprese coesive proliferano dove gli sportelli bancari sono diffusi (+25,5 per cento) e il volume dei prestiti supera la media (+45,7 per cento). Togliere liquidità al sistema o irrigidire Basilea e gli accordi internazionali senza correttivi pro Pmi significa, di fatto, prosciugare la capacità di fare rete. Il tabù da superare è che "il mercato del credito si autoregola": non accade nelle economie a forte presenza di piccole imprese. Servono garanzie pubbliche selettive, rating che considerino la sostenibilità di lungo periodo e valorizzare le reti delle banche territoriali. Terzo pilastro: persone e competenze. Dove la domanda di laureati è più alta (+8,6 per cento), fioriscono più aziende coesive. Il mismatch resta cronico: le imprese faticano a reperire il 49 per cento dei profili specializzati e Stem. Bisogna accelerare su Its, dottorati industriali, percorsi di up e reskilling mirati all'IA e alla transizione ecologica. E' tempo di abbattere il tabù che separa "istruzione" e "impresa": campus diffusi, docenti-imprenditori e stage ben pagati sono politiche industriali, non "extra costi". Quarto fronte: inclusione come leva economica. Nei territori dove c'è spazio per donne manager, giovani startupper e lavoratori stranieri la quota di imprese coesive sale. La parità di genere e l'immigrazione qualificata non sono agende "sociali" da gestire a latere, bensì motori di valore. Il vero tabù è pensare che un'economia in declino demografico possa fare a meno di talenti esterni. Quinto driver: legalità e qualità delle istituzioni: meno lavoro irregolare equivale a più rete d'impresa. In questo senso il contrasto alla burocrazia opaca e all'evasione non è solo etica pubblica, ma politica industriale pro coesione. Infine, la taglia conta: è coesivo il 42 per cento delle micro-piccole e il 71 per cento delle mediograndi. Incentivare fusioni, contratti di rete e poli di specializzazione è indispensabile per allargare massa critica e capacità di investimento. In sintesi, alle imprese servono cinque ingredienti interdipendenti: fiducia territoriale, credito paziente, competenze evolute, inclusione diffusa e legalità forte. Alla politica compete uno sguardo integrato che trasformi questi fattori in un'agenda di sistema: meno bonus estemporanei, più investimenti nelle relazioni che producono innovazione, buona occupazione e resilienza competitiva. Solo così la "coesione" smetterà di essere un fattore di successo (ancora) per pochi e diventerà il motore strutturale della crescita italiana. Giuseppe Tripoli segretario generale Unioncamere.

SCARICA L’ARTICOLO IN PDF
L'ora della svolta - Giuseppe Tripoli | Il Foglio

Devi accedere per poter salvare i contenuti