Dall'area tra Piceno e Teramano, queste tre storie danno un volto - diverso da quello che spesso immaginiamo - al tema della proprietà collettiva e del fare insieme, e lo fanno in modo professionale e innovativo. Per far comprendere che, per gestire un territorio estremamente frammentato, occorre collaborare.
Ci sono storie che nascono in montagna e che in montagna vogliono restare, perché parlano di un modo diverso di abitare questi luoghi, di custodire il paesaggio e di immaginare un futuro possibile oltre la retorica dell’abbandono. Storie che partono da luoghi poco conosciuti e percepiti come remoti dell’Appennino centrale, ma che raccontano un forte valore collettivo: quello delle comunità che si autogovernano e investono per il bene comune.
Durante le giornate della Soft Economy di Treia, dedicate quest’anno al tema "comunità presenti e beni comuni", mi ha colpito l’ascolto di tre interventi brevi ma potentissimi. Tre voci femminili che, attraverso comunanze agrarie, amministrazioni separate dei beni di uso civico e cooperative di comunità, mostrano come in questi luoghi si resiste e si evolve. Storie di visione, professionalità e responsabilità, che restituiscono dignità e forza al vivere in montagna. Quella che segue è la loro testimonianza, così come l’ho ricevuta: viva, urgente, necessaria.
Sono storie semplici di proprietà collettive dell’area tra Piceno e Teramano, che messe insieme raccontano un mondo femminile, plurale, di un territorio come quello dell’Appennino centrale colpito dal sisma. Danno un volto – diverso da quello che spesso immaginiamo – al tema della proprietà collettiva e del fare insieme, e lo fanno in modo professionale e innovativo.
La prima storia è quella di Franca Poli, presidente della Comunanza Agraria di Propezzano – frazione a 912 metri di quota di Montegallo, comune sparso del Piceno che conta poche decine di abitanti. Una comunanza di per sé "piccola": 50 ettari di bosco in gestione, ma che rappresentano un presidio e risorsa primaria.
Dice Franca: "Per parlare di comunanze agrarie bisogna avere presenti le ville di montagna con i suoi abitanti, e quindi la comunità villeggiana. Questa comunità villeggiana è proprietaria di beni collettivi gestiti dalle comunanze agrarie che a loro volta hanno assemblee dei comunisti (Gobbi, 2004), di cui fanno parte gli abitanti della villa".
Ne parla con precisione e puntualità, con la competenza di chi non solo lo ha vissuto e le è stato tramandato, ma che lo ha anche studiato in profondità. Definisce la comunanza "un diritto particolato e particolare" e aiuta a comprendere come le comunanze agrarie sostengano l’esistenza della comunità stessa. Sottolinea: "Noi montanari siamo ricchi. Le comunanze siamo ricche", una ricchezza di cui però manca consapevolezza, nonostante boschi, pascoli, sorgenti e soprattutto la possibilità di partecipazione diretta.
Ne spiega puntualmente anche i risvolti economici, ricordando l’obbligo del reinvestimento sulla comunità villeggiana. E ribadisce l’importanza di gestire, di conoscere per decidere cosa la comunità vuole fare con le proprie risorse, attraverso scelte condivise in assemblea: "Nutrire la comunità pensando di cosa ho bisogno." Questa è una delle tante piccole storie di comunanze che non sono spesso esplicite, ma da scovare, incontrare e conoscere abitandole, perché radicate nel territorio e ancora impegnate nel tentativo di restare fuori dai sistemi politici, amministrativi ed economici che hanno pervaso ovunque, anche le montagne. A volte riescono a sfuggire, altre no e si adattano, portando comunque il valore di una gestione che mantiene controllo sul territorio.
Spostandosi di poco verso il confine abruzzese, Barbara Diletti, amministratrice dell’Antica Università Agraria di Rocca Santa Maria, nel comune sparso di Rocca Santa Maria, anch’esso di meno di 450 abitanti e 62 chilometri quadrati di superficie. Qui l’ASBUC (Amministrazione Separata dei Beni di Uso Civico) gestisce 2.500 ettari di bosco, 600 ettari di pascolo e 1.500 ettari di seminativo, in un’area remota ma complessa come quella del Ceppo, paradiso del fungatico e luogo di esplosione del turismo montano (tema cui dedicare un articolo più approfondito).
Barbara racconta come l’amministrazione, "antica ma molto attuale", eserciti una gestione utilitaristica ed ecologica delle risorse per poter abitare il territorio, interamente incluso nel Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga. La presenza dell’ASBUC significa controllo del taglio del bosco – sia per uso civico che commerciale – regolazione della raccolta dei funghi e gestione dei beni immobili come il campeggio del Ceppo, oltre a sperimentare progetti agricoli come la coltivazione della genziana in alta quota con un’azienda locale.
Gestire significa che quel poco di guadagno viene totalmente reinvestito sul territorio: cura delle piste forestali, manutenzione dei rifugi d’alta quota e delle sorgenti, fornitura di legna a prezzo molto ridotto (almeno il 50% in meno rispetto al mercato) ai residenti. Un aiuto concreto per un paese oltre i 1000 metri, dove l’inverno è ancora lungo e freddo: un modo per dire "voglio che resti, anzi che restiamo qui insieme".
Barbara, con la semplicità di chi fa anziché raccontare, collega il suo contributo all’ASBUC alla sua attività di maestra di scuola primaria, dove la pluriclasse è la normalità e inventarsi modi nuovi di fare scuola diventa indispensabile per essere vicina ai bambini e alle bambine del territorio. Trasmette la paura della perdita dei presidi scolastici, ma anche il valore fondamentale di iniziative culturali come il Festival dei Borghi e Sentieri della Laga (ne avevamo parlato in QUESTO ARTICOLO), che unisce frazioni distanti in un calendario annuale che prima di tutto ridà identità.
Perché, dice Barbara, non basta avere un’ASBUC per abitare collettivamente: occorre metterla in relazione con tutto ciò che accade sul territorio, con la visione tramandata da chi ha gestito i beni collettivi prima: mantenere ciò che abbiamo ricevuto dal passato, preservarlo per il futuro e per chi verrà dopo.
Chiude con un appello: "Ricostituite le proprietà collettive dove è possibile", perché è così che si dà senso all’essere presidio del territorio e si pratica l’autogoverno della collettività.
Non solo comunanze agrarie, ma anche nuove forme di gestione collettiva del territorio, nate dalla consapevolezza. È il caso di Fano Adriano, 250 abitanti a 750 metri sul livello del mare alle pendici del Gran Sasso, con la cooperativa di comunità Fanesia, raccontata da Marcella Cipriani: nata con lo scopo della ricettività e del turismo, ma che grazie alla presenza di agronomi e forestali ha rivolto la riflessione anche al patrimonio forestale e come ripensare e ricostruire un’economia agrosilvopastorale.
Un modo di fare insieme che nasce dalla conoscenza profonda del territorio, delle sue mancanze ma anche delle sue opportunità. Un progetto ambizioso che guarda alle terre collettive ma anche a quelle silenti abbandonate nei dintorni del paese, sia private che pubbliche, come possibile leva per il rilancio. Racconta sogni e progetti di attivare piccole filiere locali – vitivinicole, apistica per miele d’alta quota, filiera del legno – e le difficoltà, come il non riuscire a trovare mezzo ettaro di terra per sperimentare la vigna.
Manuela e la cooperativa mettono in campo competenze per progettare un territorio dove la risorsa legno è ancora vista soltanto come da ardere, cercando invece di innovare: artigianato, legno da opera, carbonella alimentare, cammini e benessere in foresta.
Perché sarebbero diversi da altri progetti territoriali? Perché si è lavorato sulla conoscenza del proprio paese per gli abitanti attraverso iniziative come i laboratori fondiari di ritorno alla terra per far comprendere come gestire un territorio estremamente frammentato, nella consapevolezza che per ottenere risultati occorre collaborare.
Tre brevi storie, dieci minuti ciascuna, che hanno rafforzato un pensiero già presente nei miei cammini nei territori della Laga: la presenza femminile, la responsabilità nella cura del territorio, la professionalità. Non è tanto parlare di presenza di donne, quanto di femminile: voce plurale, capacità di relazione con gli altri e con la terra; attenzione e presidio, combattività e insieme la capacità di rimettere insieme i pezzi quando serve, con qualche compromesso.
Perché il fine, alla fine, è viverci, su queste montagne.