Nell’ultimo biennio il comparto tessile-moda italiano, pur gravato dagli effetti del lockdown pandemico e dalle difficoltà connesse dalla guerra in Ucraina, ha mostrato notevole resilienza. Malgrado le previsioni pessimistiche di economisti e osservatori, la capacità di ripresa del comparto trova infatti conferma nelle aspettative positive che riguardano il 2023, rafforzate dai progressi del primo trimestre. È attesa nell’anno in corso una crescita del fatturato del 5% superando la soglia dei 100 miliardi di euro, mentre l'export crescerà da 86,3 miliardi del 2022 a 92,8 miliardi di euro.[1] Sul piano legislativo e della governance fatti importanti hanno segnato il periodo considerato e ne segnano il futuro.
Già negli anni precedenti la commissione UE aveva dedicato attenzione al comparto, ben consapevole dell’impatto ambientale delle sue produzioni [2] e del volume di rifiuti pre e post consumo generati, rifiuti prevalentemente conferiti in discarica o esportati in aree povere del mondo con effetti ambientali rilevanti. L’attenzione della Commissione è certamente motivata dalle preoccupazioni ambientali ma anche dalla consapevolezza del valore economico, occupazionale, culturale e sociale del comparto. Nei vari documenti sviluppati per dare concretezza al Green Deal Europeo e all’ obiettivo di raggiungere la carbon neutrality, la moda ha infatti un posto di rilievo ed è indicata come settore ‘faro’ della transizione ecologica. In particolare, le azioni necessarie a favorire la transizione verso modelli più sostenibili sono esplicitate nella Proposta del 30 marzo 2022 (Strategia dell’UE per prodotti tessili sostenibili e circolari), che definisce una serie di obiettivi che il settore dovrà raggiungere per garantire entro il 2030 una reale circolarità dei prodotti tessili immessi sul mercato europeo e porre le basi per il superamento del fast fashion. Obiettivi ed aree di azione, dopo essere stati oggetto di consultazione presso gli stakeholder, sono stati confermati dal Parlamento UE con la risoluzione del 1 giugno 2023 [3] e ridefiniti nel rapporto Transition pathway for the textiles ecosystem del 6 giugno 2023. [4] Il disegno è operare su più fronti -dall’ecodesign alla riduzione della carbon footprint, dall’adozione di metodi scientifici di misurazione dell’impatto ambientale alla miglior integrazione tra sistemi produttivi e capitale naturale/biodiversità- per incidere tanto sui sistemi produttivi-distributivi quanto su opinione pubblica e consumatori. In particolare secondo la Commissione Europea, i capi immessi sul mercato europeo dovranno essere: durevoli, riciclabili e realizzati quanto più con fibre riciclate, privi di sostanze pericolose e prodotti nel rispetto dei diritti umani e dell’ambiente. Per consentire ai consumatori di scegliere in modo consapevole, i capi saranno dotati di un Passaporto digitale contenente le informazioni sulle caratteristiche di sostenibilità, comprese le indicazioni sulla corretta gestione dell’articolo a fine vita. Il tema dell’informazione documentata e veritiera è molto sentito dalla Commissione che alla lotta al greenwashing dedica passaggi importanti nella Proposta del 2022 e nella Direttiva sui Green Claims del 2023 [5], in cui si sottolinea infatti la necessità di basare le dichiarazioni ambientali su metodologie scientifiche di calcolo dell’impronta ambientale di prodotti e processi e si fa esplicito riferimento alle regole di categoria relative all’impronta ambientale di prodotto (PEFCR) e alla certificazione di prodotto Ecolabel. Nelle proposte formulate non mancano infine obiettivi specifici, come il contrasto al rilascio di microplastiche durante il lavaggio dei capi in fibre man made e l’impegno a regolamentare l’uso di PFAS [6] nell’impermeabilizzazione dei capi, nonché il divieto a distruggere i capi invenduti, pratica diffusa tra i brand della moda.
Non sorprende che le imprese si interroghino su come implementare queste linee programmatiche, e che preoccupi la tendenza presente nei documenti citati a regolamentare ciò che ad oggi sono pratiche volontarie gestite dalle imprese più sensibili alle ragioni della sostenibilità. Un’analisi svolta da Blumine (Milano) su 12 marchi globali della moda evidenzia l’importanza assunta nei bilanci di sostenibilità dai temi relativi al cambiamento climatico – seppur gestiti prevalentemente nelle azioni dirette dell’impresa (GHG -Scope 1 [7]) – e la crescente importanza attribuita ai temi dell’ ecodesign, della riciclabilità, della carbon footprint di prodotto e quindi della tracciabilità, come politiche di filiera destinate a coinvolgere l’intera catena del valore.
Un capitolo importante delle strategie UE riguarda naturalmente la riduzione dei rifiuti e la corretta gestione dei beni a fine vita. Con la Direttiva 851 del 2018 [8] la Commissione ha sollecitato gli Stati membri ad organizzare entro il 2025 una gestione efficiente della componente tessile dei rifiuti urbani, obiettivo anticipato in Italia senza risultati apprezzabili al 1° gennaio 2022. Oltre ad indicare una specifica road map del programma, già nel 2018 venivano definite come condizioni per raggiungere questi obiettivi la diffusione di pratiche di ecodesign (progettare cioè utilizzando materiali ottenuti da riciclo e programmando durata e fine vita del bene) e la responsabilità estesa del produttore (EPR). L’approccio ribadito nei recenti documenti europei è quindi sistemico: la transizione a soluzioni circolari coinvolge tanto i fornitori di risorse e la supply chain, tanto i soggetti ‘a valle’: enti pubblici e società appaltanti, riciclatori, imprese in grado di valorizzare le materie seconde in nuove catene del valore, e non ultimi, i consumatori stessi.
[1] Camera Nazionale della Moda.
[2] Nell'Unione europea il consumo di prodotti tessili, per la maggior parte importati, rappresenta attualmente in media il quarto maggiore impatto negativo sull'ambiente e sui cambiamenti climatici e il terzo per quanto riguarda l'uso dell'acqua e del suolo (Agenzia Europa per l’Ambiente -EAE 2022). Al riguardo, uno studio del gruppo Ambrosetti mostra però come le stime sviluppate da diversi enti di ricerca presentino valori diversi a conferma della difficoltà di misurare la carbon footprint di un settore vasto e complesso come quello della moda (Ambrosetti, Just Fashion Transition, 2022). La gravità del problema è sottolineata da uno studio del 2020 di McKinsey in cui si sostiene che, mantenendo l’impegno di decarbonizzazione stabilito, le emissioni complessive dell’industria della moda saranno circa 2,1 miliardi di tonnellate all'anno entro il 2030, mancando così gli obiettivi lanciati dalla COP 21 nel 2015.
[3] https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2023-0215_IT.html
[4] https://op.europa.eu/en/publication-detail/-/publication/6392f189-0416-11ee-87ec-01aa75ed71a1/language-en
[5] https://environment.ec.europa.eu/publications/proposal-directive-green-claims_en
[6] Responsabili delle gravi contaminazioni delle falde acquifere in Veneto, Arpa Veneto definisce le sostanze Perfluoro alchiliche ‘composti che, a partire dagli anni cinquanta, si sono diffusi in tutto il mondo, utilizzati per rendere resistenti ai grassi e all'acqua tessuti, carta, rivestimenti per contenitori di alimenti ma anche per la produzione di pellicole fotografiche, schiume antincendio, detergenti per la casa. Le loro proprietà e caratteristiche chimiche hanno però conseguenze negative sull’ambiente e a causa della loro persistenza e mobilità, questi composti sono stati rilevati in concentrazioni significative negli ecosistemi e negli organismi viventi’.
[7] Emissioni di gas effetto serra generate direttamente dall’azienda e dalle attività direttamente controllate.
[8] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32018L0851
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