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di Vittorio De Benedictis   

Dalla laurea in Filosofia alle tecnologie digitali, come ci è arrivata?

"Io ho imparato studiando. Ho avuto la fortuna di fare un'università molto libera, dove decidevi il piano di studi.. era un'altra università. Non c'era la magistrale, cioè si studiava, si davano gli esami, ci si laureava possibilmente in quattro anni, E a un certo punto ho intercettato un seminario sulla filosofia delle immagini...Ai bambini viene insegnato dalla prima elementare l'alfabeto delle parole. Io dico che bisognerebbe cominciare a insegnare l'alfabeto delle immagini, perché oggi, soprattutto chi ha meno anni di noi, non passa neanche dall'alfabeto. Vi ricordate l'abecedario eccetera? Arriva direttamente su un telefonino con delle foto, delle immagini che bisogna imparare a usare, a capire e a capire che cosa si può fare di meglio. Attraverso questo strano luogo che è la filosofia, un luogo di libertà, sono arrivata a capire che le immagini erano molto interessanti".

Quindi lei lavora con le immagini...

"Diciamo che al momento produco documentari, quindi cerco dei soggetti interessanti. A Milano abbiamo questa casa di produzione, la Muse Factory of Projects, che si occupa di tutto il mondo del design: una industria creativa importantissima. Ho imparato facendo, come si dice. Poi ho frequentato una scuola, perché dovevo capirne un po’ di più. I mondi del design e dell'architettura, sono molto belli, creativi, ma dove, per esempio il video si usava pochissimo, si “cacciavano” tante belle fotografie e si scrivevano dei testi".

Quindi c'era un mercato dei video e c'è sempre di più...

"Diciamo che vent'anni fa era tutto agli inizi. Ho cominciato con le videocassette, ti si rompeva il nastro dentro. Quando è arrivato il digitale, a un certo punto quel nastro non c'era più, tutto è diventato più immateriale".

E bisognava imparare tutto di nuovo...

"Accadeva anche facendo delle trasmissioni per la Rai: facevi il girato con il nastro, poi andavi in sede, il nastro si tagliava e si cuciva praticamente a mano. Col digitale tutto è cambiato, e oggi dobbiamo anche capire come il digitale sta cambiando, ha già cambiato e sta cambiando in corsa il mondo del lavoro creativo. C'è è stata una democratizzazione digitale, che ha portato tutti noi ad avere telefonini con telecamere che sono fantastiche, con cui si può imparare a usare il linguaggio delle immagini per costruire delle storie. Tutto questo fino a pochi anni fa era privilegio di pochi, le emittenti televisive, le case cinematografiche, i registi che avevano bisogno degli operatori, che avevano bisogno degli aiuti operatori. Le telecamere erano strumenti giganti, usati per lo più da uomini, diciamolo: anche perché ci voleva la forza bruta per portare questi oggetti in giro per tutta la giornata. Oggi chiunque può comprare una telecamera, un telefonino e inventare, reinventare la propria storia delle vacanze, filmando quello che vede, quello che gli piace, ciò che vuole condividere con gli amici, i familiari, chi sta dall'altra parte del mondo".

Questa sera c'è una giornalista de Il Secolo XIX che scrive il pezzo sulla manifestazione. Molto ben seguita dal quotidiano, ma scatta anche foto, gira un video...Fino a 30 anni fa c’era il fotografo al seguito. E' cambiato il modo di fare il giornalista. Uno dei fronti nei quali è impegnata è quello delle fonti, l'archivio è decisivo anche per il giornalista... E qui si parla del grande passo in avanti fatto con l'archivio digitale...

"Assolutamente si. Cominciando a fare i primi documentari mi sono resa conto quanto fosse importante poter accedere a fonti, quindi immagini, testi, documenti, schizzi, disegni Abbiamo fatto tempo fa un documentario sull'archivio di Renzo Piano. Lì ho capito quanto era importante per loro aver cominciato, prima che diventasse così popolare, a digitalizzare non tutti i materiali, ma quelli più importanti, che qualcuno seleziona, perché in un progetto di architettura che dura magari 5 anni immaginatevi quanti disegni, quanti prototipi, quanti modelli, quanto materiale si produce. Ecco, c'è qualcuno che seleziona e decide che cosa fa la parte della storia futura. Molte volte questa storia futura diventa presente. Adesso il Centre Pompidou, la prima grande opera di Piano, progettata con Richard Rogers, viene chiuso per ristrutturazione e stanno andando in archivio a vedere come erano stati scelti certi materiali, perché c'era bisogno di un certo tipo di tecnica piuttosto che un'altra. Ecco, a me devo dire la verità è un tema che appassiona moltissimo. L'altro venerdì ero a un Festival bellissimo sulla spiaggia di Senigallia, dove si discute di tanti argomenti interessanti, è arrivato un filosofo italiano che insegna a Boston all'MIT. E ha detto: “è finita l'era dell'archivio”".

Ma dell'archivio c'è sempre bisogno, come ha appena spiegato...

"Siamo entrati nell'era dell'oracolo perché tutte le tecnologie che oggi sono più importanti per la nostra vita sono tecnologie predittive. Guardo il navigatore per vedere se ci sarà traffico sulla strada da Milano a Genova. Se fosse così, io posso anche chiudere lo studio.."

Su Renzo Piano in realtà ha fatto due documentari...

"Si fanno tanti lavori, mostre, libri, documentari sugli archivi. Un po’ perché forse abbiamo bisogno di recuperare questa memoria storica proprio perché tutto è diventato molto intangibile. Il secondo documentario si intitola ”Inside Renzo Piano Building Workshop”, lo trovate su Rai Play e racconta il metodo, cioè come si lavora in uno studio. In realtà gli studi sono due, uno a Genova e l'altro a Parigi: vi lavorano contemporaneamente 80 persone su 10, 12 progetti in tutte le parti del mondo. Ci siamo concentrati su come si costruisce un progetto insieme, lavorando di squadra".

In che altri ambiti lavora?

"Abbiamo la fortuna di vivere in una città, Milano, in una regione ricca di industrie creative e non solo. A me piace molto entrare nella produzione, cioè raccontare con le immagini come si fanno le cose, quindi vedere le macchine, vedere le persone al lavoro, raccontare un processo che nel caso del design è importantissimo perché tutto parte da un'idea, poi si fa lo schizzo su un foglio, ci sono delle persone che ne discutono, poi si produce un prototipo che di solito è fatto da un artigiano, insomma da qualcuno che lavora con le mani e poi quell'oggetto diventa qualcosa che esiste, diventa un numero N e poi diventa seriale. Tutto questo richiede  investimenti in ricerca tecnologici ma anche di pensiero altissimi. E finisce poi in una catena di produzione che fa sì che poi l'oggetto rispetti gli standard, che oggi sono sostenibilità, qualità".

Quindi sta in piedi economicamente il filone dell'industria creativa ad alta innovazione al servizio di istituzioni, imprese...

"Assolutamente sì. Noi ne siamo la dimostrazione. Io lavoro con tanti giovani che magari vengono dalle scuole di cinema e non sanno niente di design e di architettura. Però vedo che poi si appassionano e capiscono che non c'è solo la storia, diciamo il romanzo che diventa un film, ma anche la vita vera e quello che la nostra industria produce che diventa una storia. Forse più bella di altre perché è vera e perché riguarda tante vite, tante famiglie e tante persone".

Qualche settore in particolare per lei più interessante?

"Qui alla Casa delle tecnologie emergenti ho visto questa bella installazione sui musei di Genova. Sicuramente i musei sono realtà culturali con cui ci piace molto collaborare. Lavoriamo a Milano molto col Museo del Teatro alla Scala, che è un museo visitatissimo dagli stranieri, mentre i milanesi lo conoscono poco. E' esposta una collezione permanente con vari cimeli di Toscanini, oppure quadri, ventagli appartenuti a grandi dive, come Maria Callas. E poi sono allestite mostre temporanee che raccontano un musicista, un compositore o un'opera. E noi insomma aiutiamo i musei a trovare dei linguaggi più contemporanei, per parlare anche ai più giovani, ma anche a chi non conosce così bene la vita culturale di Milano e di queste istituzioni".

Si è cimentata anche con la scrittura di un libro…

"Ho scritto un libro, “Icone di impresa”, che racconta, i musei di impresa, un'altra realtà, molto, molto italiana, molto bella, molto estesa su tutto il territorio che va dal museo della liquirizia al museo Piaggio. Ecco, ho raccontato 40 di questi musei, adesso sono tantissimi, più di 120 associati in musei-impresa, un'associazione che cerca di fare conoscere queste realtà in Italia e all'estero, prendendo un oggetto simbolo per ogni museo e raccontando come in quell'oggetto è contenuta la storia e l'innovazione che l'impresa ha portato nel suo mondo. Una per tutti, la Vespa Piaggio, che. E' forse uno dei più noti simboli del made in Italy e dei più longevi, perché molti di questi oggetti sono ancora in produzione, straordinariamente".

E per finire l'intervista uno sguardo a Cte. Che idea si è fatta?

"Devo dirvi che venendo da fuori questi sono luoghi pieni di fascino. Questa commistione di funzioni, di luoghi, di cose diverse che succedono, vi assicuro che è una ricchezza. E oggi questa “casa” è una ricchezza, un luogo dove ci si incontra, si scambiano opinioni. Un luogo di mezzo. Quindi vi ringrazio per avermi invitato".

 

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