Il punto di forza delle imprese italiane sta nella sintesi originale tra bellezza dei prodotti e sofisticata tecnologia, tra qualità e funzionalità, tra innovazione e sostenibilità ambientale e sociale. E proprio in questa stagione segnata da una competizione internazionale particolarmente dura e selettiva (aggravata dalle drammatiche pensioni geopolitiche che destabilizzano i mercati e dai dazi americani), la risposta del nostro mondo industriale alle crisi sta nella ricerca dell’eccellenza tecnica e nel rafforzamento dei valori etici ed estetici che ispirano la manifattura: il cosiddetto “bello e ben fatto” made in Italy.La conferma della forza competitiva di un simile orientamento arriva dall’elenco dei venti vincitori dei Compassi d’Oro internazionali e dei destinatari delle trentacinque menzioni speciali, un elenco annunciato, all’inizio di settembre, dalla giuria presieduta da Maite Garcìa Sanchis, nel Padiglione Italia dell’Expo di Osaka, progettato da Mario Cucinella.Il tema di quest’anno del premio, nato nel 1954 per iniziativa di Gio Ponti e promosso dall’Adi, l’Associazione del Design Industriale e adesso legato alle scadenze delle Esposizioni Internazionali, era “Designing Future Society for our Lives”. E tra i venti vincitori dei Compassi, dodici sono i prodotti di imprese italiane: Pirelli, Generali Italia, Kartell, Bonotto, Fratelli Guzzini e iGuzzini, Campagnolo, Caimi Brevetti, Martinelli Luce, Vimar, Vetreria Vistosi, Istituto Italiano di Tecnologia per il Centro Protesi dell’Inail). Segno, appunto, di un’eccellenza della cultura politecnica italiana (valori umanistici e conoscenze scientifiche) e di una capacità competitiva di respiro internazionale. La tenuta dell’export italiano (oltre 620 miliardi), nonostante le turbolenze che investono le relazioni commerciali globali, ne è esemplare testimonianza. Sono italiane anche la maggior parte delle imprese delle 35 menzioni (come Irinox, Poliform, Archivi Olivetti, Fondazione Rovati, Mandelli 1953, Smeg, Elica, EssilorLuxottica, Venini, etc.)
Cosa raccontano i prodotti premiati? Guardiamo meglio: un pneumatico P Zero E (Design for the Mobility, costruito con gran parte dei materiali naturali o riciclati), una ruota da bicicletta, una serie di tessuti sostenibili per il fashion luxury e di tessuti fonoassorbenti per gli ambienti di lavoro, i sistemi di illuminazione e le lampade e poi ancora le sedute ergonomiche, i proiettori urbani, una piattaforma digitale di servizi, un esoscheletro modulare. Ne emerge la rappresentazione delle capacità delle imprese italiane di mettere sui mercati prodotti e servizi particolarmente innovativi, in grado di dare risposte originali ed efficaci ai bisogni del vivere, dell’abitare e del lavorare a misura di efficienza, benessere, qualità e di una migliore prospettiva di consumi che vada ben oltre il consumismo di massa e investa positivamente l’ambiente e le comunità sociali. Imprese, insomma, a misura degli Stakeholders Values, i valori e gli interessi delle persone e dei territori con cui l’industria entra in contatto e dal cui confronto ricava cultura e legittimazione sociale.
Qualità e sostenibilità, insomma, sono valori oramai incorporati nei sistemi produttivi e nei modelli di business dell’ “Italia che fa bene l’Italia”, per usare una sintesi cara a Symbola. E cioè veri e propri modi di fare impresa, conquistare migliori posizioni nelle nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati, rafforzare il consenso di consumatori sofisticati ed esigenti. Sono anche connotazioni forti di una cultura d’impresa evoluta, che ha radici nella tradizione manifatturiera italiana e proiezioni verso un futuro più attento alla qualità della vita, del lavoro, dei costumi sociali.
Sostiene Luciano Galimberti, presidente dell’Adi: “Il design è vissuto come disciplina che attraversa le nostre vite, capace di superare i confini nazionali e affrontare le sfide globali con innovazione, qualità e attenzione alla sostenibilità”. L’Adi Design Museum, diretto da Andrea Cancellato, regista dell’”operazione Osaka”, ne offre testimonianze storiche esemplari (Kartell, Guzzini e Pirelli sono marchi ricorrenti), esempi di una tradizione di “cultura del progetto” e “cultura del prodotto” che ha saputo sfidare i tempi e continuamente si rinnova.
Nota Annachiara Sacchi sul Corriere della Sera (6 settembre): “Soluzioni per un’umanità più consapevole. Connessa e responsabile. Attenta all’economia circolare, ai progetti a basso impatto ambientale. E alle scelte che mettono il design a servizio della vita, immaginandolo come una sorta di esperanto, un linguaggio di valore universale che collega bisogni e visioni”.
Un design, insomma, come caratteristica profonda dell’Italia contemporanea, uno degli strumenti principali grazie al quale il Paese ha saputo riprendersi dopo la guerra, costruire il boom economico e diventare rapidamente una potenza industriale, tra le prime al mondo, ben presente sui mercati internazionali. Una caratteristica continuamente attuale e progettuale.
Mario Vattani, commissario del Padiglione Italia a Osaka, commenta: “È proprio questa idea di Italia che vogliamo promuovere: una nazione capace di unire cultura e industria, creatività e innovazione, tradizione e visione strategica”.
I Compassi d’Oro, in altri termini, confermano e rafforzano una scelta produttiva. E culturale. Secondo la sapiente lezione di Gio Ponti: “In Italia l’arte si è innamorata dell’industria. Ecco perché l’industria è un fatto culturale”. Un’indicazione strategica che ha, appunto, un nome semplice ed essenziale: design. E un aggettivo qualificante: sostenibile.
Una sostenibilità su cui insistere, nonostante i venti contrari che spirano anche all’interno dell’opinione pubblica di grandi paesi industriali, a cominciare dagli Usa. Superando rigidità normative e burocratiche (il Green Deal della Ue ne risente, con danni pesanti al sistema industriale europeo, come mostra per esempio la crisi del settore automotive). E mettendo in piedi, invece, strumenti validi di politica industriale comune che stimolino innovazione, investimenti, produttività, con una migliore “economia della conoscenza”. I Rapporti elaborati per conto della Commissione Ue da Mario Draghi ed Enrico Letta, già lo scorso anno, contengono indicazioni preziose. Vanno tirati fuori dai cassetti in cui sono stati riposti e trasformati rapidamente in scelte concrete, provvedimenti, decisioni di investimenti adeguate.
“L’Europa deve trovare forza nell’unione e nella valorizzazione delle competenze, nell’innovazione, di fronte alle tensioni dei dazi e della geopolitica, alle sfide digitali e ambientali”, consiglia Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia.
Per le imprese italiane, d’altronde, questo è un terreno in cui muoversi a proprio agio. Come documenta il settimo Rapporto Consob sulla “rendicontazione non finanziaria” presentato nei giorni scorsi e cioè su quelli che vengono comunemente definiti come bilanci di sostenibilità: nel ‘24 li hanno presentati 150 società presenti in Borsa su Euronext Milan e cioè il 72% delle quotate, che rappresentano il 97% della capitalizzazione di mercato: “Una dimostrazione di come le imprese italiane stiano incorporando la sostenibilità nella propria governance, nelle strategie di lungo periodo e perfino nei sistemi di incentivazione dei vertici aziendali”.
Serve una competitività più efficace e sostenibile, insomma. Non meno. Perché l’Italia possa continuare a essere un paese manifatturiero. Con un futuro industriale da cui dipendono anche la qualità e la solidità del nostro futuro, economico, ma anche sociale e civile.