Il fenomeno più rilevante individuato nel corso dell’ultimo anno è rappresentato dalla sempre più acuta crisi delle gallerie d’arte medio-piccole, prese fra l’ineluttabile presenza alle fiere e la crescita smisurata delle cosiddette megas. Per quanto concerne la salute dell’arte contemporanea nelle principali città italiane, il dato più palese è lo scollamento sempre più ampio fra Milano e Roma. Infine, sul fronte della fiscalità si registra l’interruzione di un cammino avviato con l’art bonus, ma anche una certa vivacità del Mibac, incarnata dall’attivismo dell’Italian Council.
Il “sistema dell’arte”, ovvero la filiera produttiva che nasce delle istituzioni che formano gli artisti e arriva ai musei e ai collezionisti, passando per spazi non profit e musei, fiere e case d’aste, ha il suo punto nevralgico nelle gallerie. Queste ultime sono il luogo in cui gli artisti crescono, strutturano il proprio lavoro ed eventualmente si avviano alla consacrazione storica e/o economica. Tale snodo sta vivendo un momento di crisi epocale: schiacciate da un calendario sempre più fitto e globale, cadenzato dagli (esosi) appuntamenti fieristici, le realtà medio-piccole sono in evidente difficoltà.
Aumenta di conseguenza il divario rispetto alle “megas”, le poche e potenti gallerie multinazionali che non soltanto conquistano fette di mercato, ma diversificano le attività, colonizzando spazi tradizionalmente occupati da altri operatori. Assistiamo così, ad esempio, alla pubblicazione da parte della svizzera Hauser & Wirth di una rivista, Ursula, mentre lo statunitense Gagosian dà vita a un servizio “esterno” di consulenza per collezionisti. Meno evidente al grande pubblico ma indicativo è l’intervento in spazi museali, a fronte di economie sempre più ridotte a disposizione dei musei stessi: basti guardare alla recente Biennale di Venezia, durante la quale la galleria Gagosian ha organizzato una mostra di Georg Baselitz alle Gallerie dell’Accademia, Hauser & Wirth una retrospettiva di Arshile Gorky a Ca’ Pesaro e Thaddaeus Ropac una monografica di Adrian Ghenie a Palazzo Cini. A ulteriore prova dell’aumentato potere delle megas c’è il fenomeno dell’acquisizione e/o gestione degli estate: la sola Hauser & Wirth si occupa, fra gli altri e citando soltanto gli italiani, di Piero Manzoni, Fabio Mauri e Fausto Melotti.
A fronte di tutto ciò, la soluzione non può risiedere in una rincorsa del fenomeno, per definizione ristretto a un numero ridotto di gallerie-aziende; e nemmeno in una forma di resistenza cocciuta. Se è infatti indubitabile che le gallerie medio-piccole (insieme agli spazi non profit, ancora troppo poco presenti in Italia) sono l’humus grazie al quale il sistema stesso garantisce la propria sopravvivenza, è anche vero che il format della galleria d’arte abbisogna di una revisione profonda, che mantenga saldo il ruolo di attivatore del processo di crescita di artisti e collezionisti e al contempo non si arrocchi nella formula dello spazio espositivo che propone mostre temporanee con opere in vendita. Prendendo ad esempio Torino, si notano già alcuni tentativi di affrontare il problema: da Mazzoleni, che punteggia le proprie mostre con opere museali, non necessariamente in vendita, a Raffaella De Chirico, che opta per una riduzione dell’orario di apertura al fine di potenziare il lavoro con gli artisti; fino a Norma Mangione, la quale presenta progetti in fiere internazionali condividendo spazi, spese e idee con colleghi di altre città. Lo stesso spazio fisico della galleria sta dando i primi segnali di mutamento: la tendenza sembra infatti quella di abbandonare gli asettici white cube in favore di edifici storici, ben connotati architettonicamente: a partire da Franco Noero con la galleria in Piazza Carignano a Torino per arrivare alle sedi di Massimo De Carlo a Milano, fra Palazzo Belgioioso e Casa Corbellini-Wassermann, fino alle gallerie — entrambe a Milano — dei giovanissimi Tommaso Calabro e Federico Vavassori.
Fra i primi imputati di questa crisi ci sono le fiere d’arte: numerosissime, globali, fondamentali per assicurare una buona fetta del fatturato annuale ed entrare in contatto con i collezionisti di altre città e Paesi, e però estremamente rischiose sia dal punto di vista della effettiva realizzazione sia da quello immediatamente economico (le voci di costo vanno dall’affitto dello stand ai trasporti, alle assicurazioni, al personale ecc.).
D’altro canto, le fiere stesse sono in aspra competizione fra loro su scala almeno continentale e la situazione è altamente instabile (la piazza di New York, per fare un unico esempio, vede lo scontro fra Armory, Frieze e TEFAF, colossi fieristici che a loro volta devono fronteggiare Art Basel Miami). Nel contesto italiano, i player principali sono Artissima a Torino, Miart a Milano, Art Verona e Artefiera a Bologna. Pur essendo anche questa una situazione in continua e rapida evoluzione, si può notare come i casi di Milano e Bologna siano quelli al momento più rilevanti, e per una caratteristica comune: aver insistito con grande cura sul rapporto con le istituzioni e i privati che operano nelle rispettive città, consolidando l’immagine di fiere che sono per definizione appuntamenti a carattere economico, ma attorniati da una fitta rete di appuntamenti culturali di elevata qualità, e focalizzandosi sull’audience development del pubblico dell’arte contemporanea (almeno temporaneamente superando Torino, che questa formula l’ha di fatto inventata, e Verona, che non dispone della massa critica sufficiente per competere su questi asset).
Per quanto concerne le tendenze cittadine, è evidente come l’impegno — più “registico” che economico — delle amministrazioni locali giochi un ruolo fondamentale nell’attivazione di buone pratiche. Mentre Torino e ancora di più Genova confermano le proprie difficoltà (nel primo caso, in particolare, per una esplicita ridefinizione delle priorità, non solo culturali), eloquente è lo scollamento sempre più evidente fra la dinamicità di Milano e l’impaludamento di Roma. Mentre infatti nella “capitale morale” è incessante l’investimento anche dei privati (fra gli annunci più recenti, l’apertura del Museo Etrusco promosso dalla Fondazione Luigi Rovati e il Gucci Hub in Via Mecenate67), nella capitale politica stentano a giungere investimenti rilevanti, ostacolati da dinamiche tutt’altro che trasparenti, almeno nell’immagine restituita dalla cronaca quotidiana cittadina. Critica, almeno in prospettiva, la situazione di Venezia: se da un lato prosegue il fiorire di fondazioni private (la più recente è la Fondazione Valmont), dall’altro l’incipiente scenario dopo-Baratta (presidente de La Biennale di Venezia) rischia di essere deludente o almeno destabilizzante.
Da segnalare una resilienza appenninica: da Bologna, che rilancia il proprio evento fieristico dentro e fuori gli spazi della fiera stessa (assai efficace l’accoppiata fra Lorenzo Balbi, direttore del MAMbo, e Simone Menegoi, direttore di Arte Fiera), come poc’anzi evidenziato, fino all’insistenza da parte dell’amministrazione fiorentina nel puntare sulla creatività contemporanea (ultimo, in ordine di tempo, il colossale progetto all’ex Manifattura Tabacchi, con la presenza anche in questo caso del vulcanico Sergio Risaliti) non tanto per il proprio riposizionamento quanto, intelligentemente, per restituire l’immagine di una città che non si accontenta di un patrimonio storico-artistico straordinario. Per quanto riguarda il Sud, Napoli conferma l’ottimo momento a livello culturale, pur in assenza di particolari exploit (e in epoca di competizioni globali agguerrite, la rendita di posizione rischia di non essere realistica); Matera, Capitale europea della cultura 2019, dopo le iniziali difficoltà sta capitalizzando l’occasione, e auspichiamo si tratti del primo passo per uno sviluppo continuato nel tempo; nel medesimo senso, durante e dopo la rassegna europea Manifesta, Palermo ha avviato una serie importante di progetti a carattere culturale (grazie all’impegno di personalità come Emmanuele Emanuele e Francesca & Massimo Valsecchi), ma sarà il prossimo semestre a restituire un’immagine più affidabile in merito all’efficacia di quel volano.
Tornando a un livello sistemico: se il tasto più dolente resta una fiscalità punitiva — l’art bonus ha rappresentato il primo passo di un cammino al momento interrotto: basti pensare che l’acquisto di opere d’arte, per fare l’esempio più macroscopico, è soggetto all’IVA del 22%, mentre l’aliquota applicata in ambito editoriale è del 4% — va tuttavia segnalata una interessante evoluzione dal punto di vista del lobbying, intenso nella migliore accezione del termine.
Ne sono testimoni il Comitato Fondazioni Italiane Arte Contemporanea, rete promossa e presieduta da Patrizia Sandretto Re Rebaudengo (ambasciatrice sempre più rilevante e attiva globalmente nel rappresentare l’arte contemporanea in Italia) e interlocutore privilegiato nei confronti dei decisori politici; e l’operato dell’Italian Council (progetto della Direzione Generale arte e architettura contemporanee e periferie urbane capeggiata da Federica Galloni), organismo che finalmente lavora in maniera efficace per la promozione degli artisti italiani all’estero: un piccolo passo che andrà implementato, ma la cui direzione è senz’altro corretta.