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Un anno potrebbe sembrare poco, eppure proprio tra il 2016 e il 2017 emergono questioni inedite. Si inaspriscono i dilemmi tra un ordine delle cose in via di progressiva diluizione da una parte e molteplici fermenti che si consolidano gradualmente dall’altra. Paure rassegnate, reazioni viscerali e visioni costruttive segnano un’ebollizione senza precedenti. Si tratta di uno snodo culturale: tanto il sistema delle credenze e dei valori quanto gli oggetti e le azioni cui affidiamo la rappresentazione del sé appaiono renitenti alle etichette convenzionali, e sperimentano strade espressive artigianali e deformattate. Lungo questo crinale le convenzioni che vacillano di più sono il tempo e lo spazio, che l’uscita dalle certezze manifatturiere rende flessibili e leggeri. Una società che costruisce il proprio orizzonte sulla creazione di contenuti e sulle complessità identitarie trasforma tempo e spazio da gabbie rigorose in flussi liquidi che chiunque può gestire in modo personale e variabile.  

L’elaborazione di una strategia si colloca oltre il fascino momentaneo per un paradigma economico segnato da aggettivi seducenti (sharing, knowledge-based, experience, etc.) ma in definitiva ambigui. La trasformazione può esercitare un forte impatto sulle dinamiche culturali e sociali attraverso la prevalenza dei linguaggi creativi come orientamento di fondo per individui, gruppi, imprese e istituzioni; al tempo stesso, prassi e azioni sperimentate sul web cominciano ad acquisire dimensione analogica. Potrà sembrare complicata e contraddittoria, ma la realtà non è mai stata così ricca.

 

Il mondo sta attraversando un periodo di spiazzamenti e assestamenti (un elenco essenziale: Brexit, Trump, migranti, Erdogan, Duterte, Kim Jong-Un, Maduro, Siria, ma anche Macron e Merkel, e un rosario di attentati di diversa matrice in tutti i continenti) che sembrano dominati da nuove paure cui si reagisce con rabbia e sconforto. Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, è stata premiata dall’Unesco per la sua caparbia politica di accoglienza, mentre si costruiscono muri e si inaspriscono le leggi. In questo quadro si perde quasi del tutto quella solidità delle relazioni che aveva consentito la crescita del paradigma manifatturiero con la pace dei cent’anni dal Congresso di Vienna a Sarajevo. La temperie è dominata dall’incertezza e la realtà elude ogni possibile previsione oscillando in modo piuttosto creativo.

Deformattata e pervasiva, la stessa guerra offre modelli inattesi e finisce per ridisegnare la vita quotidiana. Non è un caso che il nemico più odiato sia la cultura, tanto nella sua accezione antropologica di prassi, credenze e visioni quanto in quella più convenzionale di oggetti e azioni che ci rappresentano. Impossibile ignorare il disprezzo per la cultura degli altri nell’ostinarsi a considerarli marginali e importuni, così come l’eccidio e le devastazioni di Palmira. Distruggere la cultura inscena una rituale damnatio memoriae in aiuto dei prossimi dominatori; ribalta la gerarchia dei valori dileggiando i segni dell’identità; condanna in modo brutale il pensiero critico, minacciandone l’eventuale ricostruzione; globalizza il conflitto restringendo ogni questione al presente: senza più passato non si può guardare a un futuro credibile.

In questa scomposta ebollizione il fattore umano gioca un ruolo centrale, ma è bifronte. Da una parte la creatività, l’umanità delle arti e della conoscenza si stanno riscoprendo insostituibili, crescono con un certo entusiasmo e vanno sostenute. Lo stesso marketing si rende conto che il consumatore è complesso, e da target è stato promosso a persona: i suoi desideri contano più dei bisogni. Dall’altra, è sempre il fattore umano a guidare le sorti della politica interna e internazionale, incidendo sul sistema culturale per effetto di contingenze viscerali e umorali che giocano sull’empatia disperata e sulla corta memoria di società stanche, in una democrazia affaticata. I nuovi populismi offrono una miope soluzione di chiusura, che applica un filtro crepuscolare alla visione del futuro imminente. Rispondono soltanto gli artisti creativi, che da Damien Chazelle (regista di “La La Land”) a Salvador Sobral (appena vincitore di Eurovision Song Contest) provano a ricostruire un glossario della fiducia e delle relazioni.

La cultura europea vacilla e intanto negli Stati Uniti Donald Trump progetta di abolire il National Endowment for the Arts[2], mettendo a repentaglio il lavoro alacre di una moltitudine di realtà culturali tanto piccole quando fondamentali che lavorano per promuovere la cultura delle minoranze etniche e delle comunità neglette, o si occupano di mettere le famiglie disagiate o gli scolari in contatto con le arti. Realtà che producono impatti sociali infungibili e sistematici, grazie a piccole quote dei fondi nazionali, mentre i colossi museali di Manhattan sono costretti a ridefinire il proprio spettro d’azione nel dilemma tra identità e mercato, perdendo visitatori anche se non ancora finanziatori: nell’ultimo anno il Metropolitan Museum of Art ha accumulato un deficit pari a 15 milioni di dollari, ha rinunciato a cento unità di personale e ridotto le mostre annuali da 55 a 40, probabilmente per lo squilibrio tra ambizione e cautele competitive forse un po’ esagerate in una stagione di  nuove aperture museali a Manhattan.

In Gran Bretagna le incerte prospettive dell’uscita dall’Unione Europea spaventano il sistema culturale, che attraverso la Creative Industries Federation, un ente indipendente dai governi, ha pubblicato un decalogo (“A General Election Manifesto for the Creative Industries”) ponendosi come vero e proprio interlocutore a protezione dei possibili effetti di Brexit sul settore delle arti e della cultura, e chiedendo al Parlamento norme, incentivi e strumenti che incoraggino l’accesso, rafforzino l’azione e sostengano la crescita dell’industria culturale e creativa.

Simmetricamente, molti tra i più importanti architetti affidano al Guardian il fondato timore che l’uscita dalla UE finisca per stabilire una sorta di dissennato protezionismo dei talenti: “tralasciando gli inevitabili danni commerciali, crediamo che ciò avrà conseguenze profondamente negative limitando severamente il trasferimento di informazioni, idee e influenza, così come restringendo i programmi comuni di formazione e ricerca”[3]. Sottolineano che la perdita sarebbe bilaterale: i britannici vedrebbero atrofizzarsi l’opportunità di attingere a intuizioni ed esperienze dei lori colleghi del continente, e allo stesso tempo non potrebbero indirizzare le proprie oltre le coste della loro isola. Così, finalmente in documenti formali e condivisi si prende atto della crescente evanescenza del sistema industriale e della necessità di ripensare la spina dorsale dell’economia e della società, e si ribadisce il ruolo cruciale e infungibile che l’industria creativa e i suoi canali di fertilizzazione ricoprono ai fini della crescita.

In un periodo di ebollizione politica l’ansia della protezione dall’estraneo rischia di prendere il sopravvento: proprio quando la versatilità informale ha bisogno di permeabilità si progettano muri. Ecco un leitmotiv stonato, tant’è che numerosi artisti (uno su tutti è Ai Wewei, che in Italia ha abbracciato Palazzo Strozzi con una via crucis di gommoni) ci costruiscono visioni e opere; così, mentre il progetto SpaceX studia un modo per andare a vivere su Marte dal 2024, i processi democratici diventano risse viscerali, i rapporti di genere si complicano e spesso sfociano in violenza bestiale. Lo sviluppo tecnologico non garantisce alcuna crescita sociale. Se ne parla estesamente a Documenta 2017, quest’anno inaugurata ad Atene e proseguita a Kassel. L’esposizione è incentrata sugli attacchi alla democrazia in un’epoca definita di ‘controriforma’ proprio per le derive geopolitiche che il mondo sta vivendo. Qui, per esempio, un’artista argentina sta costruendo un Partenone con centomila libri banditi, ed è possibile contribuire alla lista semplicemente riempiendo un modulo e spedendo il proprio libro ‘illegale’ alla stessa Marta Minujìn.

In effetti, la dimensione digitale ha introdotto e consolidato tecniche e azioni che in tempi impalpabili raggiungono ogni latitudine; le professioni emergenti risultano sempre meno localizzate e la necessità di interagire con il mondo ha reso evanescenti i fusi orari. Questa apparente scomparsa delle gabbie ha però generato una reazione morbida, in base alla quale metabolismi meditati e prossimità di relazione sembrano occupare spazi sempre più diffusi. Se la condivisione risulta prevalente nella lettura del paradigma emergente, è proprio nel superamento delle griglie da manuale che si aprono aree di creazione e di produzione: l’economia arancione, fondata sui processi creativi, stimola nuove professioni e propone una scala di valori che alla dimensione sostituisce l’esperienza, come nei cortili artigiani segnati da relazioni orizzontali e verticali.

Sul fronte del lavoro è ormai chiaro che nessun automa, drone o robot potrà sostituire il lavoro creativo. Conoscenza e creatività, content design e in generale la costruzione di significato sono il nocciolo delle professioni che supereranno ogni possibile crisi. La fase di emersione di nuove pratiche dal basso nel campo della progettazione culturale sta riempiendo gli archivi di big data anche nel settore creativo, e la gestione intelligente di tali dati sarà la prossima sfida. Le nuove professioni influenzano anche l’architettura d’interni, per cui si progettano spazi comuni ampi e camere da letto più piccole, perché il lavoro, non solo dei sempre più numerosi autonomi o freelance, molto più frequentemente si svolge da casa propria.

C’è chi sovverte i protocolli abitativi, massimizzando la flessibilità e puntando sull’esperienza, come nel caso di Roam, spazi di co-living aperti a Miami, Bali, Tokyo e Londra (e in apertura a San Francisco) che offrono “comfort, community and productivity” attraverso la possibilità di combinare attività individuali e condivisioni creative, per 500 dollari la settimana; la separazione tra le dimensioni personale e professionale si fa sempre più evanescente, come affermava Italo Calvino in tempi non sospetti. Tempo e spazio si mescolano sempre di più, come presagisce il progetto su cui sta lavorando Elon Musk: Hyperloop, un metrò globale che collega tutto il mondo.

Anche il design degli spazi del lavoro si modifica[4], adeguandoli alle urgenze di nuovi modelli d’impresa e preferendo flessibilità e funzionalità all’estetica: in questo modo spazio e tempo diventano complici e finiscono per amalgamarsi somigliando al funduk nordafricano, il cortile degli artigiani nel quale si condividono visioni e si sperimentano le nuove tecnologie. L’economia dei prossimi anni sarà più solidaristica che competitiva. I nuovi headquarters della giapponese Uniqlo[5], realizzati dallo studio statunitense Allied Works Architecture, per esempio, sembrano portare la filosofia del kaizen (il miglioramento continuo nato in ambienti industriali) a un livello successivo: la creazione di una centro direzionale a forma di città ha in un certo senso internalizzato il coworking, predisponendo di riunire tutti i dipartimenti per la prima volta non solo in uno stesso edificio, ma addirittura sullo stesso piano, e i primi effetti della riforma sono indicati attraverso l’“aumento del sorriso” e il “maggior contatto visivo” tra i lavoratori.

In questo senso, la chiave di lettura è sempre quella di una tendenza verso un ritorno alla lentezza, alle relazioni concrete, che, a differenza della nostalgia comunicata dalla politica, si innesta proficuamente con l’innovazione tecnologia, lasciando presagire una morbida crescita. Il dominio sul tempo dipende dalla capacità di ridisegnare le dinamiche spaziali, come suggerisce il recente progetto – non a caso un’intuizione tutta italiana – A Joyful Sense at Work, creato dall’artista Filippo Riniolo[6] e curato dall’architetto Cristiana Cutrona (per il design) e dall’art consultant Francesco Cascino (per la creatività), che offre agli spazi professionali una dimensione onirica infrangendo i vincoli che ingabbiano il lavoro creativo.

Nelle aree metropolitane gli spazi più ricchi di fermento sono le periferie, per molti versi libere di reinventarsi grazie alla mancanza di zavorra rituale (l’offerta culturale mainstream è concentrata nei quartieri più istituzionali e finisce per condizionarne le dinamiche sociali ed economiche), alla scompostezza fertile degli empiti creativi e al basso costo del territorio e delle sue infrastrutture, il che genera flussi di localizzazione capaci di moltiplicarsi a vicenda. In più di un caso le periferie risultano il calderone in cui ci si indigna manifestando un dissenso crescente contro un sistema che sembra aver perduto l’orientamento: è una ferita destinata ad allargarsi drammaticamente, come sottolinea Territory, un brano dei The Blaze[7] in cui lo sconforto amaro per la marginalità condivisa genera una reazione semplice: riappropriarsi in modo ludico degli spazi urbani. In questo modo non è quasi più possibile identificare una cultura specifica come traccia identitaria del territorio; le aree metropolitane ricompongono di continuo il proprio mosaico delle culture (nelle periferie urbane australiane si beve sempre più thè e sempre meno birra per la crescita progressiva della popolazione asiatica che vi si insedia).

Anziché giudicare il fenomeno è tempo di interpretarlo e possibilmente di trarne talenti e fermenti, anche attraverso una ricognizione critica dell’impatto effettivo che l’industria creativa e la sua cascata di implicazioni possono produrre nell’ambito dei processi di rigenerazione urbana[8]. Soprattutto nelle città che vantano una forte identità artistica e culturale risulta di cruciale importanza attivare processi di riequilibrio innestando l’industria creativa e il suo variegato ventaglio di valori in aree altrimenti neglette, fra tutte gli insediamenti industriali e produttivi abbandonati nei quali gli investimenti pubblici e privati vanno pilotati strategicamente con delicatezza in un orizzonte di lungo periodo.

Così, il rischio di replicare errori già commessi rimane elevato: se Londra, New York, Berlino e Barcelona hanno attivato flussi di gentrificazione stimolati (inconsapevolmente) da nuovi enzimi creativi, allo stesso modo – per fare un paio di esempi eloquenti – il distretto creativo Mesto di San Pietroburgo e il quartiere Flon di Losanna sembrano aver perso la scommessa volta alla rigenerazione coerente ed efficace: a fronte di esperienze variegate e spesso incisive sembra esser mancato il necessario abbrivio strategico da parte delle amministrazioni municipali. Mentre le intuizioni (e l’accettazione dei rischi imprenditoriali) sembrano attecchire presso l’industria creativa nelle sue diverse sfaccettature, il glossario dell’azione pubblica appare tuttora atrofico e lento. Spazio e tempo delle diverse aree del mondo stanno cambiando irreversibilmente, è tempo che il disegno dell’azione pubblica se ne accorga e abbia il coraggio di anticiparne i flussi magmatici.

Proprio in questi ultimi anni il concetto stesso di governo della città e, di conseguenza, di qualità della vita urbana si sposta verso una visione più ecumenica e responsabile delle azioni urbane. Superando il modello – più enunciato che realizzato – della città come distretto culturale per effetto di insediamenti creativi a elevata capacità di trascinamento, il patchwork urbano cresce sulla base di indirizzi strategici capaci di costruire un mosaico di azioni efficaci. Certamente l’arte, la cultura e le dinamiche creative rimangono la spina dorsale più credibile per una crescita di medio periodo; ma il loro impatto effettivo sulla qualità della vita urbana dipende in misura cruciale dalla gestione dei flussi metropolitani, dalla responsabilità ambientale, dalla gestione del multiculturalismo.

Entra in gioco la sostenibilità delle abitazioni e dei percorsi urbani: Berlino ha stabilito un tetto agli affitti per mantenere l’attrazione verso le attività creative e la loro eterogeneità; più di una città scommette su flussi pedonali e ciclistici (Tokyo, Amsterdam, Siviglia ma anche Copenhagen che incoraggia un uso più intenso dell’acqua), sul verde (Monaco di Baviera, Barcelona), su investimenti relativi all’infrastruttura urbana così come a nuovi spazi culturali (Kyoto, Singapore). In questo ventaglio di nuovi indirizzi strategici un ruolo crescente sarà occupato dal traffico elettrico, dall’abbattimento delle emissioni, e al tempo stesso dalla capacità di selezionare i flussi turistici in modo da costruire un’effettiva interazione fertile tra la comunità residente e i viaggiatori in cerca di storie, identità, esperienze da condividere.

Condivisione, ibridazione, o capitalismo 2.0? Molti dei protocolli emergenti enfatizzano la propria natura di strategie e azioni condivise, mentre spesso nascondono nuove forme di gerarchia senza garanzie, superando i modelli della produzione manifatturiera attraverso il potenziamento del vertice aziendale e lo sfilacciamento della forza lavoro (ne è un eloquente esempio UBER come tutte le imprese basate su self-employed jobs, che finiscono per somigliare pericolosamente alla servitù della gleba). Il sistema culturale rimane indifferente a questi mutamenti o sperimenta nuove prospettive? Alcuni segnali indicano quanto meno la necessità di una radicale revisione delle strategie (vedi la crisi, già evocata sopra, del Metropolitan Museum di New York) e di un’espansione delle opzioni creative, produttive e distributive (vedi il superamento della musealizzazione per gli artisti contemporanei). La dimensione digitale appare sempre meno una supplenza comoda nei confronti delle rigidità analogiche, e può diventare un canale osmotico lungo il quale costruire nuovi scambi integrando entrambe le dimensioni.

L’opportunità della condivisione si riscontra sia con i creative commons, sia con la diffusione crescente di contenuti in forma aperta e digitale da parte delle istituzioni culturali più variegate. Le università offrono lezioni gratuite in podcast, il MoMa lancia un corso di fotografia online, numerosi altri musei cominciano a digitalizzare le proprie collezioni per rendere accessibili a chiunque i patrimoni. Il Rijksmuseum di Amsterdam, così come il Victoria & Albert Museum di Londra e il Prado di Madrid offrono il proprio patrimonio in versione digitale, ben sapendo che la fruizione digitale spinge verso l’esperienza analogica. Nel gioco sempre più condiviso della geo-reference non poteva mancare un estesissimo archivio digitale di mappe storiche, simboliche, illustrate e corredate da immagini (oltre 76 mila): la David Rumsey Map Collection della Stanford University Library; non è più la long tail degli appassionati di nicchia, è l’umanità dei prossimi anni che finalmente esercita la propria curiosità come strumento per una solida consapevolezza critica navigando a proprio agio nello scrigno indefinito dei big data.

Nel Regno Unito, Mahogany Opera Group sfida i confini della lirica costruendo produzioni inedite che rimescolano il dizionario espressivo dell’opera e attirano e nuovi pubblici, mostrando un coraggio creativo che apre canali morbidi ed efficaci verso una forma d’arte tuttora piuttosto negletta e ne ibrida il glossario espressivo insieme alla struttura cross-mediale. In California la Biennale di Bombay Beach[9], sulle sponde del Salton Lake, prosciugato dall’inquinamento e altri danni antropici, rivaleggia con Coachella e Burning Man. Appena alla sua seconda edizione, Bombay Beach Biennale vuole dare nuova vita a un territorio compromesso e abbandonato attraverso l’intervento di un centinaio di artisti che si interrogano su “come era il futuro prima”, costruendo insieme una visione che supera la nostalgia grazie alla condivisione di un orizzonte che ogni tanto sembra essere scomparso.

Il patrimonio culturale è traino del turismo, la cui industria si sta evolvendo su vari fronti. La proliferazione incontrollata di soluzioni di ospitalità alternative agli alberghi, sotto l’egida della sharing economy, ha destato perplessità e preoccupazione anche tra le amministrazioni locali. Mentre città come Venezia cominciano a pensare di contare i propri turisti per evitare la congestione tipica dei beni di club, Amsterdam sembra aver capito meglio di tutti la sharing economy. Qui, il governo locale ha incentivato la creazione di piattaforme che propongono le esperienze di condivisione più disparate, di fatto traducendo in chiave tecno-contemporanea usanze antiche, come il vero scambio di case: l’app FlyParkRent permette di usare auto lasciate dai vacanzieri all’aeroporto di Schiphol; Djeepo offre spazio disponibile per oggetti da depositare quando non si ha più spazio nella propria cantina; Konnektid mette in contatto persone che vogliono scambiarsi abilità e competenze, dal suonare uno strumento a parlare una lingua straniera; Abel collega i viaggiatori in macchina (ma in tempi analogici lo faceva l’antesignano DriveAway negli Stati Uniti).

Si tratta comunque di nuove pratiche che non solo fanno risparmiare, ma sono pensate per mettere le persone in condizione di fare comunità, incontrarsi, creare delle reti, tutte cose semplici ma non così facili che chiamiamo “capitale sociale”. Che ci sia un’app dedicata o meno il segnale è molto forte: la dimensione analogica ha compreso che le sperimentazioni digitali sono un’efficace via per accrescere la qualità della vita semplicemente superando la logica meccanica e per molti versi rituale dei mercati convenzionali; alla retorica dell’economia si sostituisce finalmente la dialettica della società. Non è un caso che accanto a questi strumenti volti a facilitare la condivisione logistica emergano e crescano protocolli morbidi e generosi di condivisione dei contenuti culturali e creativi.

Pur in presenza di una normativa piuttosto pervasiva, e in molti casi carica di vincoli e proibizioni, il sistema culturale si spinge oltre le questioni connesse al ‘quanto’, al ‘dove’ e al ‘quando’, e si preoccupa del ‘come’, appropriandosi finalmente della propria capacità di esercitare un impatto infungibile sull’economia e soprattutto sulla società del proprio territorio. Nuove professioni culturali, nuove connessioni tra progetti analogici strutturati e dialoghi digitali temporanei, nuove relazioni con gli spazi urbani rappresentano la sfida del sistema culturale. Segnali in queste direzioni provengono da diverse parti della Terra, rivelando una visione comune attraverso una varietà di possibili risposte. Il soffocamento da eccesso di etichette suscita reazioni forti: anche solo ragionare sommessamente può generare lo smottamento delle convenzioni, come fa Sense8, una delle più sorprendenti serie Netflix (di fatto, un film destrutturato costruito con empatia convinta dalle Wachowski, registe di Matrix e dallo sceneggiatore Michael Straczynski) che rivendica il diritto alla fragilità scomposta, cosa che in un mondo fin troppo ossessionato dalle metriche ha un che di rivoluzionario. Non a caso i suoi protagonisti vivono in diverse parti del mondo, dall’Islanda al Kenya, dall’India agli Stati Uniti, dal Messico alla Corea del Sud, e la loro visione comune supera in modo lapidario ogni possibile lettura localistica.

Come avviene in tempi di mutamento radicale è dunque il linguaggio dell’arte a tracciare i percorsi in anticipo rispetto agli ordinamenti sociali, economici e giuridici. L’algerino Oualid Khelifi, un trentenne reduce da anni di Goldman Sachs, è tornato in Africa per ibridare i suoni e i segni di diverse culture (dal Rai d’Algeria al Gnawa sahariano, dall’high-life del Ghana all’afro-salsa[10] in un progetto musicale sincretico: El Foukr R’Assembly, una reazione forte all’indebolimento progressivo dell’Africa e al suo rivolgersi a nord; finanziato dalla piattaforma di crowdfunding Indiegogo, ha scelto di guardare al continente africano esaltandone la pluralità nella consapevolezza della velocità di crescita del continente più capace di fertilizzazioni creative.

La creatività combatte le sfide del suo tempo e del suo futuro. Ad Amsterdam il Rijksmuseum organizza ogni anno un concorso di design per produrre oggetti eversivi progettati a partire dalle opere della collezione del museo olandese. In aree soggette a ebollizioni cruciali la creatività deve continuare a fare i conti con problemi antichi. Un esempio è lo sforzo per i diritti delle donne: a Kandahar, in Afghanistan, la giovane artista Malina Suliman ha scelto la street art, dipingendo scheletri di donne con il burqa sui muri degli edifici, per esortare alla riflessione e all’azione sui tema della disuguaglianza, dell’oppressione delle donne, dei diritti negati. In Etiopia, invece, la televisione trasmette Tibeb Girls, un cartone animato in cui tre supereroine femministe fanno affidamento sui loro superpoteri (forza e velocità, visione del futuro, empatia) per combattere contro il matrimonio precoce, le mutilazioni genitali femminili, il divieto di istruzione per le ragazze; il progetto, nato dall’iniziativa dell’imprenditrice Bruktawit Tigabu, coinvolge un team di scrittori, artisti e attori e circola nelle scuole offrendo per la prima volta una serie animata in lingua etiope.

In un anno possono succedere molte cose. Certo la concentrazione di flussi migratori d’ogni genere (chi fugge da guerre e dittature, così come chi cerca occasioni professionali in luoghi più fertili e visionari) nelle grandi aree metropolitane convive in misura sempre più intensa con forti spinte verso il cosmopolitismo metodologico e l’ibridazione delle competenze. Cortile degli artigiani e al tempo stesso agorà ecumenica, la Terra sta entrando in un nuovo capitolo della storia. Costruire nuovi linguaggi, esplorare nuovi mercati, stabilire relazioni inedite e ibride appare l’unica risposta credibile alle ebollizioni magmatiche che, proprio nel 2017, hanno attraversato la soglia cruciale tra la sfiducia arrabbiata da una parte e nuove urgenze costruttive dall’altra.

In una mappa piuttosto inedita delle nostre vite quotidiane, in cui spazio e tempo si riarticolano in modo non troppo prevedibile, l’arte e la cultura segnano l’orizzonte dei prossimi anni. Dall’emersione di nuovi fenomeni, accanto al consolidamento di tendenze in crescita da qualche anno si può percepire la spina dorsale della società in ebollizione. L’industria creativa, i fenomeni artistici e i mercati della cultura si collocano con forza sempre maggiore in posizione nodale per società sempre più complesse che rischiano lo sfilacciamento e la disaffezione; la lezione che proprio nell’ultimo anno è risuonata in modo ricorrente da banlieues neglette e prive di scambi culturali fa comprendere quanto sia cruciale ridisegnare l’offerta culturale, innervandone i processi nel tessuto urbano presso tutte le componenti di una società magmatica.

Come forse si poteva presagire, la separazione tra le dimensioni digitale e analogica, enfatizzata da chi teme la perdita dei valori a causa dell’uso disinvolto di strumenti digitali e del web, sta per ricomporsi in uno scambio non più imitativo ma segnato da fertilizzazione reciproca: in più di un caso il web ha consentito sperimentazioni (da quelle business oriented come UBER, Airbnb o Deliveroo a protocolli più basici come e-Bay, Kickstarter o BeCrowdy) che stanno finendo per espandere il desiderio e la capacità di ridisegnare l’etichetta sociale superando molte delle convenzioni scaturite dalla serialità manifatturiera. Condominî, strade, quartieri scoprono nuove vie di socializzazione sostituendo prassi formali ormai obsolete con intuizioni versatili. La società dei prossimi anni sarà sempre meno prevedibile e sempre più affidabile.

La creatività e la cultura percorrono, infine, due fiumane espressive e dialogiche: da una parte stanno gradualmente riconquistando gli spazi urbani evadendo dall’isolamento eburneo anche attraverso protocolli inediti; per quanto delicata, la questione dei nuovi luoghi della cultura e, simmetricamente, del riuso di spazi abbandonati o negletti risulta di centrale importanza ai fini della qualità della vita urbana come categoria condivisa e possibilmente equilibrata. Dall’altra parte i segnali che ridisegnano la gerarchia dei valori si concentrano sempre di più nel linguaggio creativo, come è stato prima della codificazione ottocentesca: il contenuto adotta un contenitore, ma non ne riceve più un accreditamento inoppugnabile; l’oggetto-libro non garantisce la caratura letteraria, il luogo-museo non può, da solo, certificare la qualità artistica; il contenitore-palcoscenico non riesce ad assicurarci sull’incisività semantica. E’ tempo di deformattazione.

Cortile degli artigiani e al tempo stesso agorà ecumenica, la Terra sta entrando in un nuovo capitolo della storia. Costruire nuovi linguaggi, esplorare nuovi mercati, stabilire relazioni inedite e ibride appare l’unica risposta credibile alle ebollizioni magmatiche che, proprio nel 2017, hanno attraversato la soglia cruciale tra la sfiducia arrabbiata da una parte e nuove urgenze costruttive dall’altra. In una mappa piuttosto inedita delle nostre vite quotidiane, in cui spazio e tempo si riarticolano in modo non troppo prevedibile, l’arte e la cultura segnano l’orizzonte dei prossimi anni.

 


[2] http://www.newyorker.com/culture/cultural-comment/trumps-n-e-a-budget-cut-would-put-america-first-art-last?

[4] Ne pone in evidenza l’urgenza crescente manifestata da 50 architetti e innovatori dello spazio e riportata da Julie Wanger e Dan Watch nel rapporto “Innovation Spaces: The NewDesign of Work”, pubblicato da Brookings Institution per la Anne T. and Robert M. Bass Initiative on Innovation and Placemaking, aprile 2017, https://www.brookings.edu/wp-content/uploads/2017/04/cs_20170404_innovation_spaces_pdf.pdf

[6] “A Joyful Sense at Work” consiste nel ridisegno degli spazi del lavoro, attraverso una rilettura critica e prospettica dello spazio come cornice del tempo. Una serie di cubi e di visori (realizzati da Cutrona) sono stati riempiti di contenuto, significato e forza evocativa da Filippo Riniolo verso un orizzonte del tutto inedito del rapporto creativo con i luoghi dell’elaborazione e della produzione: www.filipporiniolo.it

[7] https://www. Youtube.com/watch?v=54fea7wuV6s, segnalato in un’analisi cruda sul ruolo delle periferie da Cosimo Pacciani su Linkiesta.

[8] Andres, L. e O. Golubchikov (2016), “The Limits to Artist-Led Regeneration: Creative Brownfields in the Cities of High Culture”, International Journal of Urban and Regional Research, pp. 757-75.

 

[10] L’esperienza di El Foukr R’Assembly è raccontata da Laura Aguzzi sul settimanale on-line Origami, n. 78 come esempio virtuoso di crowdfunding.

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