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“La COP30 a Belém si è confermata un’occasione importante per cercare di trovare percorsi comuni per la lotta al cambiamento climatico. Purtroppo è stata inevitabilmente condizionata dal contesto geopolitico e dai limiti del processo negoziale basato sul pieno consenso”. Riassume così Marco Frey, professore di economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e presidente del comitato scientifico di Symbola, la conclusione dei lavori alla conferenza sul clima in Brasile, che non esita a definire “deludenti”.

“Malgrado ciò la partecipazione dal basso, la presenza degli attori locali e il richiamo brasiliano alla responsabilità collettiva – il concetto di mutirão – hanno evidenziato la necessità di proseguire nel percorso tracciato a Parigi. A ciò si lega la dichiarazione del segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres: la COP è finita, ma il nostro lavoro non è terminato”, commenta di ritorno da Belém dove ha partecipato ad alcuni eventi laterali.

Professor Frey, quali erano gli elementi di interesse che hanno caratterizzato questa COP?

La COP30 apparteneva alle COP “multiple di cinque”: quelle che, nelle aspettative, dovrebbero rappresentare momenti chiave di verifica dell’Accordo di Parigi, siglato dieci anni fa. Sulla carta avrebbe dovuto ricoprire un ruolo centrale, ma già da mesi erano evidenti elementi che lasciavano presagire difficoltà nel garantirle il peso necessario sul fronte dell’implementazione, come ha dimostrato il caso dell’aggiornamento delle Nationally Determined Contributions (NDC), previsto entro settembre.

L’aggiornamento avrebbe dovuto permettere di arrivare alla COP con un quadro chiaro e completo degli impegni nazionali. È avvenuto solo in parte: come mostra il rapporto UNEP Off Target, poco più di sessanta Paesi hanno presentato piani sufficientemente strutturati da consentire una valutazione realistica delle future traiettorie rispetto alle emissioni di gas setta. Peraltro alcune NDC risultano già superate. Gli Stati Uniti, ad esempio, riportano ancora gli impegni dell’amministrazione Biden, non quelli del nuovo governo, con un impatto evidente sulla credibilità complessiva. Eppure, i numeri indicano che, se tutte le NDC aggiornate fossero pienamente attuate, l’aumento di temperatura potrebbe essere contenuto entro 2,5 °C: non in linea con 1,5 °C né con i 2 °C, ma comunque migliore dello scenario oltre i 3 °C che dominava fino a pochi anni fa.

Un secondo elemento di interesse era connesso agli aspetti di “processo”: con la COP29 si sono chiusi tutti i capitoli negoziali previsti dall’Accordo di Parigi, compreso il dossier Loss and Damage. La COP30 avrebbe quindi dovuto rappresentare la “COP dell’attuazione”. Ma tra la firma di un impegno e la definizione degli strumenti concreti per realizzarlo c’è un salto di complessità notevole.

Terzo punto: il contesto brasiliano. Il Brasile ha una storica sensibilità verso lotta alla deforestazione, difesa delle popolazioni indigene e tutela della biodiversità, elementi che avrebbero potuto facilitare un’integrazione più forte tra agenda climatica e altri ambiti della sostenibilità, soprattutto nella regione amazzonica. Ricordiamo che in Brasile si era tenuto anche un evento chiave del precedente decennio, la Conferenza di Rio+20, in cui il riconoscimento della green economy era probabilmente stata la decisione più importante.

Che clima negoziale ha trovato a Belém?

La presidenza brasiliana ha provato ad esercitare un ruolo incisivo in questa COP. Fin dalle comunicazioni preliminari ha posto al centro un concetto simbolico: mutirão, termine portoghese che indica un impegno collettivo, un’azione costruita insieme, in un’ottica di corresponsabilità diffusa. È un richiamo esplicito a ciò che negli ultimi anni è venuto progressivamente meno: la visione multilaterale. Il Brasile ha provato a ribadire che, senza un coinvolgimento condiviso – tra Nord e Sud del mondo, tra governi e popolazioni, tra Stati e comunità locali – non è possibile affrontare sfide realmente globali.

Questo approccio si è riflesso anche nella forte partecipazione delle popolazioni indigene, molto presenti soprattutto nella green zone: con manifestazioni, interventi pubblici e numerose iniziative volte a rivendicare il loro ruolo nella tutela delle foreste e nella riduzione delle emissioni. Parallelamente si è visto un aumento significativo di processi dal basso: accanto alle NDC nazionali, sono emerse Local Determined Contributions, cioè piani climatici presentati da città, province, regioni, comunità indigene.

Una novità interessante è stato il padiglione dedicato alla Higher Education, che ha coinvolto università italiane e internazionali impegnate a diffondere conoscenza, formare competenze e promuovere la cultura della sostenibilità. E, come in ogni COP, non è mancata la presenza ampia e articolata delle ong e delle realtà tecnologiche attive nei settori della transizione ecologica. Purtroppo, un problema organizzativo concreto ha inciso sulla capacità di attrazione dell’evento: logistica complessa, difficoltà negli alloggi, navi per ospitare le delegazioni arrivate all’ultimo. Il risultato è una partecipazione complessiva sotto le 50.000 presenze: nella media delle COP ordinarie, ma molto inferiore rispetto alle edizioni più rilevanti, che avevano superato le 100.000 presenze.

Quali sono stati invece i fattori che hanno smorzato le aspettative?

Il primo elemento critico ha riguardato il contesto geopolitico: per il multilateralismo questo è probabilmente uno dei momenti più difficili degli ultimi decenni. Conflitti in corso, tensioni fra potenze globali e continui riposizionamenti strategici creano un ambiente che rende estremamente complesso assumere decisioni condivise.

Il secondo elemento problematico è collegato al lavoro preparatorio. Una COP funziona solo se è sostenuta da un lavoro tecnico-politico accurato svolto nei mesi precedenti dagli sherpa. Quest’anno era evidente che tale preparazione fosse fragile e insufficiente, con negoziati che, di fatto, sono entrati nel vivo solo sul posto, con le connesse difficoltà a trovare una convergenza complessiva. Questo ha pesato in particolare su una COP che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto segnare il passaggio dagli impegni formali all’attuazione. Con la COP29 si è chiuso l’ultimo tassello dell’Accordo di Parigi, perciò la COP30 avrebbe dovuto occuparsi dell’attuazione.

Le partite chiave riguardavano quattro aspetti: la graduale eliminazione dei combustibili fossili su cui non si è deciso nulla limitandosi a richiamare quanto già definito alla COP28 di Dubai, malgrado qualche passo avanti sul carbone, dove si è allargata la compagine dei Paesi impegnati a dismetterne l’utilizzo nei prossimi anni; il fondo per i Paesi vulnerabili, che va oltre la deforestazione (nel cui ambito il Brasile si è impegnato significativamente) e riguarda l’intera gamma degli impatti climatici (qui ci si è limitati ad un appello a triplicare i finanziamenti per l’adattamento al cambiamento climatico); l’estensione degli impegni per la riduzione delle emissioni rispetto al quadro degli NDC descritto all’inizio, le azioni per l’adattamento al cambiamento climatico.

La presidenza brasiliana ha provato a fissare priorità realistiche, ma sui temi chiave non si sono alla fine registrati significativi avanzamenti e le partite rimangono aperte. Si è confermato l’impegno a contenere l’aumento delle temperature a 1,5°, ma alla luce degli schieramenti che si sono manifestati – con l’effetto frenante dei Paesi produttori di petrolio, Russia e Cina – e dei ritardi accumulati, molte delle azioni necessarie sono state rinviate alla prossima COP che si terrà in Turchia, affiancata nei processi preparatori e nella presidenza dall’Australia.

Cosa dicono i dati presentati durante la COP30?

Il rapporto Off Target dell’UNEP evidenzia che nel 2024 le emissioni globali hanno toccato quota 57,7 gigatonnellate di CO₂ equivalente, un valore ancora in crescita. Osservando i contributi nazionali, l’Unione Europea è l’unica grande area che registra una riduzione: -58,6 milioni di tonnellate. La Cina rimane in territorio positivo, con +126 milioni, ma mostra finalmente l’inizio di una curva discendente. Il Brasile è in forte aumento, anche se, secondo le stime, l’attuazione dei nuovi piani potrebbe portare a una stabilizzazione.

I circa sessanta Paesi che hanno aggiornato le loro NDC rappresentano il 63% delle emissioni globali, quindi l’analisi copre una parte sostanziale del quadro mondiale. Gli Stati Uniti restano invece una variabile imprevedibile, a causa dell’attuale incertezza politica che rende difficile valutare la reale traiettoria futura.

Un elemento di particolare rilievo è il nuovo protagonismo della Cina. Mentre gli Stati Uniti arretrano in termini di leadership climatica, Pechino ha iniziato a comunicare con maggiore trasparenza una serie di politiche già operative: investimenti massicci nelle energie rinnovabili, nell’elettrico e nella mobilità sostenibile, oltre all’introduzione di un sistema di rendicontazione ambientale per le imprese ispirato alla CSRD europea, con obblighi progressivi fino al 2030. Tuttavia, resta la sua contrarietà ad agire esplicitamente sul fronte della riduzione dei combustibili fossili e del carbone.

A proposito delle imprese: quale ruolo possono avere le imprese in questo percorso?

Un elemento sempre più evidente è il peso crescente del settore privato. A Belém ho partecipato a un evento promosso dai network europei del Global Compact dedicato ai climate transition plans aziendali ed è emerso un quadro molto dinamico. Molte aziende iniziano a dichiarare benefici economici derivanti dagli investimenti in decarbonizzazione: riduzione dei costi energetici, maggiore efficienza, accesso facilitato ai mercati e al credito.

Oggi 11.767 imprese nel mondo hanno assunto impegni formali di decarbonizzazione; oltre 9.000 lo hanno fatto tramite science-based targets, mentre circa 2.700 hanno già definito un target net zero. Più della metà di queste imprese è europea. Un dato interessante è che molte aziende stanno anticipando le scadenze: diversi target sono fissati al 2040, non al 2050. E cresce costantemente il numero di imprese che includono le emissioni Scope 3, cioè quelle lungo l’intera catena del valore: un passo che richiede impegno, capacità di misurazione e collaborazione con i fornitori.

Nel solo 2024, le imprese con obiettivi di decarbonizzazione approvati da SBTi sono circa 5.000. In aumento anche quelle che includono lo Scope 3, segno che la transizione sta diventando un tema sistemico. In Europa – dove si concentra oltre la metà delle imprese con impegni climatici – l’Italia è il secondo Paese per numero di aziende coinvolte, subito dopo la Germania.

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