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L’industria italiana continua a lanciare segnali d’allarme. I ricavi nel ‘24 sono diminuti di 42 miliardi, il 2,4% in meno che nel ‘23, con punte particolarmente negative per l’auto e la moda, ma comunque con 10 comparti in sofferenza su 15. E se si allarga lo sguardo a un periodo più lungo, si scopre che in cinque anni (‘19-‘24) abbiamo perso ben 59mila aziende manifatturiere, soprattutto nei settori dell’abbigliamento, della metallurgia, del legno e dell’industria alimentare, il 10,6% di imprese in meno.

Non è ancora il caso di parlare di “deindustrializzazione”. Ma siamo certamente di fronte a un lungo processo di crisi che, in assenza di scelte radicali e credibili di politica industriale, nazionale ed europea, rischia di compromettere profondamente il ruolo dell’Italia come secondo paese industriale della Ue dopo la Germania.

L’industria italiana continua a lanciare segnali d’allarme. I ricavi nel ‘24 sono diminuti di 42 miliardi, il 2,4% in meno che nel ‘23, con punte particolarmente negative per l’auto e la moda, ma comunque con 10 comparti in sofferenza su 15. E se si allarga lo sguardo a un periodo più lungo, si scopre che in cinque anni (‘19-‘24) abbiamo perso ben 59mila aziende manifatturiere, soprattutto nei settori dell’abbigliamento, della metallurgia, del legno e dell’industria alimentare, il 10,6% di imprese in meno.

Non è ancora il caso di parlare di “deindustrializzazione”. Ma siamo certamente di fronte a un lungo processo di crisi che, in assenza di scelte radicali e credibili di politica industriale, nazionale ed europea, rischia di compromettere profondamente il ruolo dell’Italia come secondo paese industriale della Ue dopo la Germania.

Pesano, in questo declino, la caduta dell’economia tedesca (il nostro principale partner commerciale, il punto di riferimento di filiere di fornitura un tempo, a cominciare dall’automotive, solide e profittevoli). Ma anche l’alto costo dell’energia, le tensioni geopolitiche crescenti, le preoccupazioni per i dazi minacciati dall’amministrazione Trump alla Casa Bianca e tali da provocare altri elementi di reazione, dalla Cina a Bruxelles. E anche le incertezze legate alla genericità e alla scarsa applicabilità delle politiche governative di sostegno, per esempio, su Industria 5.0. Rallentano gli investimenti in innovazione. Si amplificano le preoccupazioni degli imprenditori, in ansia anche perché continuano a non trovare persone qualificate da assumere per fare crescere produttività e competitività. Una situazione allarmante, insomma. Cui dare rapidamente risposte (ne ho già parlato nel blog del 28 gennaio).

Che elementi? Le attitudini alla green economy, gli investimenti in cultura e le indicazioni alle “politiche coesive”. Le considerazioni vengono alla ribalta da una recente analisi presentata la scorsa settimana da Symbola e dalla Fondazione Cariplo, con tre recenti rapporti della Fondazione presieduta da Ermete Realacci proprio sui temi della sostenibilità, dell’industria culturale e creativa e della coesione.

Le indagini del Rapporto Symbola e Unioncamere, infatti, documentano, con il sostegno del Centro Studi Tagliacarne, come 571mila imprese italiane, negli ultimi cinque anni, abbiano investito nella green economy e nella sostenibilità, creando 3,1 milioni di posti di lavoro e dimostrando di “affrontare meglio la crisi”, affrontando la transizione ecologica e sviluppando prodotti e processi produttivi contemporaneamente sostenibili, innovativi e competitivi. La Lombardia è la prima regione italiana per numero di imprese (102mila) che effettuano eco-investimenti. E lombardi sono i gruppi (Arvedi, Feralpi) all’avanguardia per la produzione di acciaio green, con tanto di certificazione di autorevoli istituzioni internazionali. In un paese povero di materie prime come l’Italia, essere leader nell’economia circolare, con la più alta percentuale di avvio a riciclo sulla totalità dei rifiuti (91,6%, rispetto a una media europea del 57,9%), è un vantaggio di competitivo di grande rilievo.

La sostenibilità, nei tre aspetti della tutela ambientale, dei meccanismi di governance e della sostenibilità sociale (dalla sicurezza sui posti di lavoro alla qualità degli stabilimenti industriali (anche dal punto di vista architettonico: la “fabbrica bella” e cioè ben progettata, luminosa, accogliente e, appunto, sicura) è diventata un vero e proprio asset di competitività, connotando positivamente anche le industrie costruite all’estero.

È una condizione che si rivela come un notevole punto di forza anche in un tempo in cui parlare di sostenibilità sembra una scelta in controtendenza in parecchi ambienti politici ed economici europei e internazionali.

Ci sono state, anche nel recentissimo passato, a Bruxelles, scelte ideologicamente green e decisioni burocratiche (la vicenda della frettolosità delle scelte a favore dell’auto elettrica e dei limiti ai motori endotermici ne è testimonianza) che hanno messo seriamente in difficoltà l’apparato industriale europeo, colpendo filiere produttive efficienti e investendo migliaia di posti di lavoro. Ma, seguendo le indicazioni del Rapporto Draghi sugli investimenti necessari alla doppia transizione ambientale e digitale, la Ue può sviluppare una sua originale politica industriale che, lungo i binari della neutralità tecnologica, consenta la vita e il rilancio della nostra industria, tenga testa alla concorrenza di Usa, Cina e India e rafforzi il peso europeo (e dei suoi valori, economici, civili e sociali) nei nuovi scenari geopolitici e di mercato. Le imprese italiane sensibili alla green economy sono, insomma, sulla buona strada.

Fanno fede le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Per troppo tempo abbiamo affrontato in modo inadeguato la questione della tutela dell’ambiente e del cambiamento climatico, opponendo artificiosamente fra loro le ragioni della gestione dell’esistente e quelle del futuro dei nostri figli e nipoti. Per garantire la capacità di competere, l’Europa ha necessità, a lungo termine, di abbandonare i combustibili fossili e compiere la transizione, evidenziano il nesso - come ha fatto il Rapporto Draghi - tra decarbonizzazione e competitività”.

Gli investimenti in cultura sono una componente essenziale di questa strategia. Cultura e creatività, infatti - documenta il Rapporto Symbola “Io sono cultura” - generano complessivamente un valore aggiunto di 296,9 miliardi di euro. E anche in questo caso la Lombardia è la prima regione, con quasi 30 miliardi.

Giocano positivamente le relazioni virtuose tra imprese industriali e di servizi e industria culturale, nel contesto di una dinamica “economia della conoscenza”, forte anche delle collaborazioni, per formazione e ricerca, con un sistema universitario lombardo di alto livello anche internazionale. Così come funziona la consapevolezza di come e quanto pesino le “imprese coesive” (quelle che hanno un forte legame con i territori di insediamento e con tutto il sistema degli stakeholders: un dinamico capitale sociale positivo) con stimoli maggiori per l’innovazione, la qualità del lavoro, la tendenza all’export e, in una sola parola, la competitività.

Sono dimensioni storiche, per buona parte delle nostre imprese (musei d’impresa e archivi storici ne offrono esemplari testimonianze). E scelte di attualità. Di cui è indispensabile che i soggetti politici e amministrativi e le organizzazioni sociali e di rappresentanza prendano sempre più chiara coscienza (la legge della Regione Lombardia sul riconoscimento e la promozione dei musei d’impresa ne è importante segno, che anche altre regioni potrebbero cogliere).

Le imprese, insomma, sono attori economici, naturalmente. Ma anche attori sociali e culturali. E come tali vanno considerate anche dall’opinione pubblica più ampia.

Fa testo, di questa indicazione, anche un vecchio giudizio di uno dei migliori economisti internazionali, che oggi vale la pena rileggere. È di John Kenneth Galbraith, contenuto in uno dei suoi libri di maggior successo, “The affluent society” del 1958 e poi ribadito durante il suo viaggio in Italia, a Torino, nel 1983. Eccolo: “L’Italia, partita da un dopoguerra disastroso, è diventata una delle principali potenze economiche. Per spiegare questo miracolo nessuno può citare la superiorità della scienza e dell’ingegneria italiana o l’efficacia della gestione amministrativa e politica. La ragione vera è che l’Italia ha incorporato nei suoi prodotti una componente essenziale di cultura e che città come Milano, Parma, Firenze, Siena, Venezia, Roma, Napoli e Palermo, pur avendo infrastrutture molto carenti, possono vantare nel loro standard di vita una maggiore quantità di bellezza. Molto più che l’indice economico del Pil, nel futuro il livello estetico diventerà sempre più decisivo per indicare il progresso della società”.

Industria e cultura, bellezza e competitività. La lezione è sempre d’attualità.

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Green economy, cultura e politiche di coesione per evitare il declino dell’industria - Antonio Calabrò | HuffPost

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