La Fondazione Symbola nel corso del consueto seminario estivo di Treia, dedicato quest'anno al tema "coesione è competizione", ha riservato un'attenzione specifica ai piccoli Comuni, e alla relazione tra questi e l'innovazione sociale e territoriale. Sullo sfondo, inevitabilmente, una riflessione sui principi e le norme contenute nella legge n.158/2017, meglio nota come Legge Realacci sui piccoli Comuni, che sarà anche protagonista dei lavori della 18^ Conferenza Nazionale dei piccoli Comuni che l'Anci terrà in Piemonte, il prossimo 13 luglio. Uno dei meriti più evidenti del provvedimento sta nel fatto che l'estensore si è accuratamente sottratto al rischio di interpretare la
dimensione del piccolo Comune nel senso (esclusivamente) oleografico e sentimentale.
La sindrome del "piccolo borgo antico" in effetti può essere esiziale per i piccoli Comuni che di tutto hanno bisogno, meno che di essere trattati come una sorta di "biodiversità urbana" da proteggere alla stessa stregua dell'airone cenerino e dell'anatra marmorizzata.
Al contrario i piccoli Comuni costituiscono un'infrastruttura pubblica di grande utilità in una nazione, come l'Italia, da uno spiccato policentrismo urbano che si sviluppa attraverso un reticolo di centri maggiori e minori che hanno rinnovato nei processi di modernizzazione un antico rapporto città/campagna nato nel
Medioevo.
La domanda è: quale può essere (e a quali condizioni) il contributo che i piccoli Comuni italiani, nell'età della globalizzazione avanzata, possono dare al Paese? Come è noto, nel mondo, la globalizzazione non solo ha portato alla
concentrazione di potere nei centri urbani globali (le global cities: New York, Hong Kong, Londra, Shanghai, Tokio) ma ha modificato complessivamente la gerarchia dei territori. L'interdipendenza è aumentata per tutti ma si tratta di una interdipendenza "asimmetrica" dove alcuni luoghi producono con le loro decisioni/attività conseguenze per più aree vaste. E territori che invece queste conseguenze le subiscono.