«Il Trump II? Come diceva la canzone – sospira Ermete Realacci – lo scopriremo solo vivendo». Dopodiché però, il presidente di Symbola parte con un ragionamento che tira in ballo il carbone degli Appalachi e il sole del Texas più di quello della California, l’Europa che «deve fare l’Europa» e la Cina che anziché più vicina è sempre più lontana (nel senso, Pechino viaggia a gran velocità sulla strada delle auto elettriche e delle rinnovabili, mentre noi siamo partiti in ritardo e continuiamo ad arrancare in entrambi i settori), il Green deal che «non è un fioretto che ci siamo imposti ma una sfida tecnologica per affermare la nostra economia» e tanto altro ancora. E tra una citazione di Bob Kennedy e una di Giorgio La Pira, il presidente della fondazione che si occupa di green economy, innovazione, sviluppo e di quell’«economia della qualità» che caratterizza molte imprese italiane, dice che l’Ue adesso deve spingere per una maggiore integrazione, «perché il rischio maggiore è che l’Europa diventi un continente à la carte: guai se qualche Stato membro ora cerca una trattativa privata illudendosi di condizionare le scelte di Trump».
Con il ritorno di Trump alla Casa bianca la battaglia contro la crisi climatica subirà una battuta d’arresto, secondo lei?
«Diciamo che la chiave del Trump II non va solo ricercata nel Trump I, perché se il tema fosse questo, per quel che riguarda il fronte ambientale il problema non sarebbe drammatico».
Perché dice così? Non la preoccupano i proclami pro-trivelle, i primi ordini esecutivi firmati contro la transizione, l’uscita dall’Accordo di Parigi?
«Sono le stesse cose che ha detto e fatto l’altra volta. Aveva annunciato e promosso i fossili, fatto uscire gli Usa dagli accordi climatici Onu. Questa volta insiste sul «drill, baby, drill», l’altra volta come slogan c’era «Trump digs coal», Trump scava carbone. Sono strategie che hanno una loro efficacia anche elettorale. Ma in quegli anni, come pure nel corso del mandato di Biden – che, ricordiamolo, non è che abbia fermato le trivelle – la quota di carbone utilizzata negli Stati uniti ha continuato a diminuire in modo consistente. E il perché è semplice».
Ovvero?
«Perché di mezzo c’è l’economia. E siccome gli americani sono pragmatici, se capiscono che la pala eolica costa meno del carbone degli Appalachi scelgono la prima, non il secondo. Il Texas, che è tutt’altro che un caposaldo dell’ambientalismo, oggi installa più pannelli solari della California. Cioè anche nella patria di Big oil hanno capito che puntare sulle rinnovabili è economicamente vantaggioso».
Quindi lei dice che un calcolo prettamente economico sconsiglierebbe agli Usa di abbandonare la via della transizione energetica?
«Questo da un lato. Dall’altro, c’è un elemento di geopolitica di cui tener conto. Un ritiro degli Usa da questo fronte lascerebbe uno spazio enorme alla Cina. Che già ora ogni anno installa più pannelli fotovoltaici di tutto il resto del mondo. Usa anche il carbone, è vero, ma sulla transizione ha impresso un’accelerazione che non ha eguali. E se gli altri competitor globali non si attrezzano per recuperare il terreno perso, sono finiti. Sulle rinnovabili come sulle auto elettriche».
Veramente, tra i primi provvedimenti, Trump ha già impresso uno stop agli incentivi per queste e per le colonnine di ricarica.
«Vedremo cosa succederà, perché non credo che Musk sia contento e perché stiamo parlando di soldi confluiti nelle tasche, oltre che del patron di Tesla, anche dello stesso Trump. E ricordiamoci poi che Tesla in Borsa vale da sola più di tutte e 9 le grandi case automobilistiche europee».
A proposito di auto elettriche ed Europa, le famiglie conservatrici presenti nell’Europarlamento stanno lavorando per togliere lo stop ai motori a combustione interna previsto per il 2035: il suo giudizio?
«Trovo stucchevole il dibattito, che riecheggia anche in Italia, secondo il quale quella normativa ucciderebbe le case automobilistiche europee. La verità è un’altra perché i dati, e io aggiungo purtroppo, sono diversi da quelli che si vuole far credere».
Cioè?
«Non è la normativa sui motori a zero emissioni che può creare problemi. Al contrario, è proprio lì che si riesce a essere competitivi. Per capire: nel 2008 l’Europa produceva il 32% di auto al mondo, la Cina il 4%. Ora l’Europa ne produce il 17% e la Cina il 32%. E la Cina oggi è il mercato automobilistico più grande del mondo, le auto elettriche vendute lì sono più della metà del totale, e questa cosa non la contrasti allungando la vita al fossile».
Però alle case automobilistiche europee va dato il tempo di adeguarsi, non crede?
«Ma non c’è dubbio che le cose vadano fatte bene, però è altrettanto indubbio che non è allungando ancora i tempi che si raggiunge l’obiettivo. Già c’è stato un ritardo negli investimenti, nell’Ue in generale e in Italia in modo particolare. Pensiamo a Stellantis. Ricordo che Marchionne aveva detto che le auto elettriche non erano il futuro e che anzi erano un pericolo per l’ambiente, salvo poi cambiare rotta qualche tempo dopo. È stato un grande manager, ha salvato Fiat e Chrysler, e in particolare i loro azionisti, ma sui veicoli elettrici aveva sbagliato. Adesso cosa vogliamo fare, continuare a frenare? No, adesso si deve accelerare su questo fronte. Anche perché la concorrenza cinese non la fronteggi con un atteggiamento attendista: una grande casa cinese ha messo in piedi uno stabilimento in Ungheria e sta per mettere sul mercato un’auto elettrica da 12 mila euro. Quindi, o ti attrezzi per competere in questo campo o sei finito».
Eravamo partiti da Trump e siamo finiti a parlare della Cina…
«Ma è inevitabile, e l’Europa deve muoversi per non finire schiacciata tra queste due forze».
La prima risposta arrivata dall’Ue dopo l’insediamento di Trump è stata all’altezza della sfida, secondo lei?
«Tutti devono rendersi conto che la campana suona anche per l’Europa. E per me Ursula von der Leyen, checché se ne dica, ha risposto nel modo giusto».
Con la strategia in tre punti, unione dei mercati di capitali, semplificazione burocratiche e più energia verde?
«Sono tutti e tre importanti, certo, ma soprattutto l’Ue deve lavorare per una maggiore integrazione e non muoversi in ordine sparso. Se l’Europa non sta assieme diventa un continente à la carte. Il rischio che si corre, e che avrebbe conseguenze devastanti, è che ora qualcuno cerchi una trattativa privata illudendosi di condizionare le scelte di Trump.
Serve invece un fortissimo rilancio europeo. L’Europa è il più grande mercato del mondo, è il continente più civile, se facciamo il confronto con gli altri per quel che riguarda livello di diseguaglianze e la spesa sociale. L’Europa deve fare l’Europa. Bisogna dare una spinta per una politica economica comune. Bisogna mettere in chiaro che il Green deal non è un fioretto, non è un’incombenza, ma una sfida tecnologica. È il modo in cui l’Europa afferma la sua economia scommettendo sul futuro».
L’Europa deve fare l’Europa, dice: è un discorso che ha a che fare con l’identità, può ricordare certi accenti di Trump sull’orgoglio americano.
«Ma non c’è niente di male a battere sul tasto dell’identità e sull’orgoglio di patria. A sinistra spesso si compiono errori su questo, quando invece c’è un patriottismo dolce che è essenziale per tenere assieme il Paese. Chi è morto per la Resistenza è morto per la libertà, l’onore, la patria. I grandi Presidenti della Repubblica, da Ciampi a Mattarella e non solo, hanno sempre teso a tenere assieme il Paese nel concetto di patria, inclusiva e condivisa, e per questo capace di aprirsi. Diceva La Pira: solo gli animali privi di spina dorsale hanno bisogno del guscio. La Pira non era un biologo e sbagliava, perché ce ne sono che hanno entrambe le cose, ma voleva dire che per aprirti hai bisogno di avere un’identità, anche multiforme, come quella italiana, che è cresciuta includendo popoli e culture diverse, ma devi averla. I muri sono figli di identità deboli, costruite contro altri. Bob Kennedy, nel finale di un famoso discorso che lo avrebbe certamente portato alla vittoria se non fosse stato ucciso, disse: il Pil può dire tutto sull’America, eccetto perché siamo orgogliosi di essere americani. Non si può costruire una prospettiva senza identità. Spesso a sinistra si cerca l’identità sulla base di questioni non così centrali. E sono convinto che certe battaglie sulla cultura woke, certi atteggiamenti di fronte a eccessi come l’abbattimento delle statue di Washington e di altri personaggi storici perché indicati come razzisti, certe campagne iperminoritarie che hanno distratto da questioni ben più importanti non abbiano fatto bene ai Democratici statunitensi».