Non è possibile affrontare da soli le crisi e le grandi sfide che abbiamo davanti. Troppo spesso si è pensato che la gestione dei cambiamenti sociali ed economici fosse una responsabilità esclusiva della politica e del soggetto pubblico. Oggi siamo chiamati a una cooperazione collettiva di tutti gli attori: cittadini e comunità, imprese e terzo settore, mondo della ricerca e della formazione, banche e sistema finanziario, associazioni e istituzioni. La crisi ambientale, economica e sanitaria, le conseguenze dell’invasione Russa in Ucraina, l’aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime, hanno dimostrato la necessità di risposte collettive.
Va in questa direzione l’Unione Europea, che ha individuato in sostenibilità, digitale e coesione/inclusione i tre asset per la ripresa, per costruire strategie di lungo periodo realizzabili solo attraverso la collaborazione di tutti i Paesi membri. Anche l’America di Biden ha legato l’erogazione di alcuni incentivi economici alle imprese capaci di avere maggiore coesione con i propri lavoratori.
In maniera analoga a livello nazionale si moltiplicano le iniziative che individuano nella coesione una modalità inedita per mettere in campo risposte dal carattere sempre più sistemico, come nel caso del Manifesto di Assisi[1] – promosso da Fondazione Symbola – che ha raccolto una comunità di oltre 4.000 esponenti di diversi mondi (economico, accademico, imprenditoriale, istituzionale, associazionistico, del terzo settore e cittadini) sull’urgenza di “un’economia a misura d’uomo”, o l’Alleanza Contro la Povertà[2] o ancora l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile[3] . Ciascuna di queste esperienze nasce per aggregare più attori di differente natura e realizzare azioni condivise verso uno scopo comune. Non sono reti collaborative abituali, ma vere e proprie “reti di scopo” la cui particolarità è mettere insieme soggetti differenti e allestire un tessuto di relazioni che abilita lo scambio virtuoso di conoscenze, buone pratiche e valori condivisi.
Come conferma il presente rapporto, sono cinque i principali driver della coesione, che spingono le imprese ad aggregarsi alla ricerca di un rinnovato legame con tutti gli altri attori che compongono il proprio ecosistema di riferimento. Questi driver sono: sostenibilità, innovazione, scarsità, imprevedibilità e riflessività.
Negli ultimi anni è cresciuta l’attenzione verso la sostenibilità, che si configura sempre più come un fattore capace di spingere le aziende – e non solo – a mettersi insieme per essere più competitive, dando vita a fenomeni che stanno riorganizzando le filiere in ottica di circolarità. Inoltre la sostenibilità si è accreditata sempre più come leva per il business, dal momento che i consumatori considerano i prodotti sostenibili come di qualità e sono disposti anche a pagare un sovrapprezzo per sostenerli, come dimostrato dalle indagini presenti nei prossimi capitoli.
L’innovazione smette di essere una risposta “eccezionale” da parte delle aziende di fronte a eventi imprevisti o particolari difficoltà, divenendo invece la pratica quotidiana attraverso cui impostare la propria organizzazione e le modalità di produzione di valore. Inoltre, fare innovazione richiede sempre più una notevole apertura organizzativa e la capacità di collaborare con altre realtà per condividere risorse e conoscenze. L’approccio della cosiddetta innovazione aperta, o open innovation[4], stimola maggiore coesione in quanto spinge i vari attori a costruire nuove modalità di collaborazione aumentando reciprocamente la propria solidità e capacità competitiva. Il fare innovazione in modo aperto e condiviso offre da un lato la possibilità di accelerare la ricerca e dall’altro di dare vita più rapidamente a nuovi prodotti e tecnologie. A questo proposito risulta iconico il caso dell’auto elettrica in cui il suo dover essere un veicolo connesso alla rete, ricaricabile, eccetera, postula una diversa forma di alleanza con chi ad esempio realizza la componentistica tecnologica o le infrastrutture di ricarica.
Con il concetto di “scarsità” invece si evidenziano due differenti fattori. Il primo è quello relativo alla scarsità di materia prima, che come anticipato innesca processi di profondo cambiamento nelle modalità di strutturazione delle filiere, da non leggere in maniera negativa. Basti pensare alle numerose esperienze di innovativi sistemi di recupero degli scarti attorno a cui sono nate nuove relazioni tra imprese, spesso con la complicità delle istituzioni, che hanno portato allo sviluppo di nuovi business e circuiti economici, se non addirittura distretti.
Il secondo riguarda la scarsità di manodopera, che presenta certamente diverse cause, a partire dal calo demografico. Particolarmente preoccupante è la mancanza sia di un numero sufficiente di nuovi giovani lavoratori, sia di giovani lavoratori in possesso delle competenze adeguate alle richieste delle imprese e del mercato, complice anche la transizione energetica che ha abilitato la nascita di nuovi lavori e competenze. Qui la scarsità si traduce anche in un mismatch tra competenze, lavoratori già inseriti e giovani, che frena le potenzialità produttive delle imprese. Ancora una volta, per rispondere a questo tipo di criticità l’unica strada è quella di riattivare un dialogo molto stretto tra mondo imprenditoriale, scuole e realtà che si occupano di formazione. Ciò permetterebbe inoltre alle imprese di risultare maggiormente attrattive per i giovani, offrendo loro percorsi professionali in linea con gli studi fatti e con le personali prospettive di carriera, rispondendo contemporaneamente al proprio bisogno di manodopera specializzata.
L’imprevedibilità rappresenta poi un fattore da tenere sempre in considerazione poiché non può essere eliminato, soprattutto nel contesto odierno dove la sfida principale nel fare impresa è proprio quella di riuscire a trasformare l’incertezza del futuro da elemento di paralisi a fonte di innovazione e sperimentazione. Se il rischio ha da sempre costituito una delle cifre distintive dell’essere imprenditori, oggi l’imprevedibilità ha raggiunto livelli tali che richiede modalità diverse di gestione. Non è un caso che durante la pandemia le imprese che hanno mostrato maggiore solidità e capacità reattiva siano state proprio quelle con forti relazioni sia all’interno tra i dipendenti, sia all’esterno con altre imprese, non profit, istituzioni e comunità. Da questo punto di vista la coesione diventa quindi un fattore che alimenta la resilienza dell’organizzazione e allo stesso tempo la inserisce in un contesto all’interno del quale diventa più facile il momento della ripartenza e della costruzione di nuove proposte di valore.
Infine la riflessività indica una nuova sensibilità nel riconoscere, da parte delle imprese, l’importanza strategica di avere un’attitudine all’ascolto, sia rispetto a come cambia il rapporto tra senso del lavoro e prospettive di vita nei propri dipendenti, sia rispetto a come cambiano il mercato, i bisogni delle comunità o i territori in cui si opera, spingendo così l’azienda a costruire legami con una pluralità di attori per acquisire “antenne” sempre più efficaci nel percepire i cambiamenti in atto e magari cogliere opportunità emergenti. Anche la capacità di lettura del contesto, tanto delle macro quanto delle micro dinamiche territoriali, rappresenta un elemento decisivo per le proprie strategie di business svolgibile solo insieme agli altri attori che abitano quei territori. E nel trasmettere conoscenza sui territori, il terzo settore spesso ha rappresentato e rappresenta un alleato fondamentale per le imprese.
Come dimostrato dalle prossime pagine, la coesione genera un vantaggio sia per gli altri soggetti coinvolti sia per l’impresa, traducibile in maggiore competitività. Abbracciare la coesione nelle proprie strategie aziendali porta a un rinnovato protagonismo dell’impresa, che la posiziona in una relazione di interdipendenza molto profonda con le proprie comunità di riferimento, rendendola capace di migliorare le performance economiche creando anche ricadute sociali positive, alimentando contemporaneamente competitività e coesione.