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Ci sono profonde distorsioni economiche e sociali, nella crescita sbilenca del sistema Italia. Lo confermano alcuni dati esemplari. Quello dei 230mila lavoratori senza contratti e senza diritti, sfruttati nelle campagne italiane, la cui condizione è stata nei giorni scorsi drammaticamente evidenziata dalla morte di Satnam Singh, bracciante agricolo indiano, lasciato a morire dai suoi datori di lavoro dopo un grave incidente. Ma anche quello sui 768mila laureati che le imprese sono pronte ad assumere, per impieghi di livello e buona retribuzione, ma di cui non ne trovano almeno la metà.

Lavoro “nero” e povero, da una parte (lo documenta una inchiesta de “La Stampa”). E lavoro qualificato non coperto dall’altra. Economia, dunque, che soffre una crisi di produttività e competitività tra le cui radici c’è appunto un mercato del lavoro squilibrato, ingiusto, segnato pure da inaccettabili condizioni di insicurezza e sfruttamento (350 morti sul lavoro già nei primi quattro mesi del 2024, erano 1.041 nel 2023). Come denuncia giustamente, ancora una volta, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dopo la morte di Singh, parlando di “una forma di lavoro che si manifesta con caratteri disumani e che rientra in un fenomeno - che affiora non di rado - di sfruttamento del lavoro dei più deboli e indifesi, con modalità e condizioni illegali e crudeli”.

Ci sono profonde distorsioni economiche e sociali, nella crescita sbilenca del sistema Italia. Lo confermano alcuni dati esemplari. Quello dei 230mila lavoratori senza contratti e senza diritti, sfruttati nelle campagne italiane, la cui condizione è stata nei giorni scorsi drammaticamente evidenziata dalla morte di Satnam Singh, bracciante agricolo indiano, lasciato a morire dai suoi datori di lavoro dopo un grave incidente. Ma anche quello sui 768mila laureati che le imprese sono pronte ad assumere, per impieghi di livello e buona retribuzione, ma di cui non ne trovano almeno la metà.

Lavoro “nero” e povero, da una parte (lo documenta una inchiesta de “La Stampa”). E lavoro qualificato non coperto dall’altra. Economia, dunque, che soffre una crisi di produttività e competitività tra le cui radici c’è appunto un mercato del lavoro squilibrato, ingiusto, segnato pure da inaccettabili condizioni di insicurezza e sfruttamento (350 morti sul lavoro già nei primi quattro mesi del 2024, erano 1.041 nel 2023). Come denuncia giustamente, ancora una volta, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dopo la morte di Singh, parlando di “una forma di lavoro che si manifesta con caratteri disumani e che rientra in un fenomeno - che affiora non di rado - di sfruttamento del lavoro dei più deboli e indifesi, con modalità e condizioni illegali e crudeli”.

Distorsioni da superare, dunque, al di là delle emozioni che affollano i discorsi di governo dopo ogni grave incidente. E dinamiche positive da rimettere in moto, proprio mentre le nuove dimensioni della “economia della conoscenza” e le radicali trasformazioni determinate dalla diffusione dell’Intelligenza Artificiale pongono alle imprese e più in generale alla società italiana, in oramai grave “inverno demografico”, l’urgenza di scelte per rilanciare e rafforzare la produttività del Paese. Né “lavoro povero” né “fuga dei cervelli”, insomma (“Sette laureati emigrati su dieci non pensano di tornare in Italia”, nota “Il Sole24Ore”, parlando di stipendi più alti e migliori prospettive di affermazione professionale all’estero). Ma investimenti sulla conoscenza e la qualità dell’industria e del lavoro stesso. Pena il degrado e il declino irreversibile del nostro Paese.

Chi guarda attentamente alle dinamiche della crescita italiana, infatti, accanto agli squilibri diffusi (“Caporalato, società fittizie e connivenze nella pubblica amministrazione”, scrive “Il Sole24Ore”), osserva anche il contributo quanto mai positivo offerto dalle imprese che da quasi un ventennio innovano, investono, tengono il passo della doppia transizione ambientale e digitale, qualificandosi come eccellenze in grado di occupare posizioni di rilievo nelle nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati internazionali e di garantire all’Italia un ruolo tra i primi cinque paesi al mondo per export (650 miliardi, il valore di quest’anno). Imprese, insomma, che puntano proprio sul capitale umano e sul capitale sociale delle relazioni virtuose con le culture dei territori di insediamento produttivo per rafforzare i propri percorsi di crescita sui mercati. Culture “politecniche”, capaci cioè di sintesi originali tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche, tra bellezza e nuove tecnologie.

L’eco si avverte nelle pagine del Rapporto “Coesione e competizione” curato dalla Fondazione Symbola e sostenuto da Unioncamere e Intesa San Paolo, che sarà presentato nei prossimi giorni a Mantova, dal 26 al 29 giugno, in occasione dell’annuale Seminario estivo dell’associazione. Vi si documenta, ancora una volta, come le imprese che hanno investito sulla sostenibilità ambientale abbiano migliorato la produttività, l’export e l’occupazione (il 43% di chi ha fatto investimenti green ha avuto un incremento di produzione di sette punti maggiore delle imprese non eco-investitrici). E come proprio l’attenzione alla formazione di qualità, all’innovazione e alla cura dei territori siano chiavi per irrobustire un tessuto produttivo ricco di manifatture e servizi innovativi che della cultura e della sostenibilità hanno fatto non una scelta di comunicazione ma un fattore strategico di competitività.

“Digitalizzazione e decarbonizzazione sono l’orizzonte delle buone imprese”, sostiene Ermete Realacci, presidente di Symbola. Con la consapevolezza che industria e ambiente non sono realtà in conflitto, ma fattori convergenti di un processo che vede nell’economia circolare e civile, nella qualità del lavoro, nella ricerca scientifica e tecnologica e nell’approfondimento di tutte le dimensioni della conoscenza i fattori chiave per la crescita dell’Italia nella dimensione europea e mediterranea. Né decrescita infelice né ideologismo anti-industriale, insomma. Ma consapevolezza critica sullo sviluppo sostenibile.

“Noi siamo i tempi”, è la frase cardine del seminario di Symbola. Una citazione da Sant’Agostino: “Sono tempi cattivi, dicono gli uomini. Viviamo bene e i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi”.

C’è infatti una profonda saggezza, in questa dimensione. Non un’attesa di tempi migliori. Ma la scelta concreta di un impegno, politico, sociale e culturale, per creare e irrobustire le condizioni di uno sviluppo migliore, più umano e responsabile.

Si ritrovano qui le radici dell’impegno a costruire “un mondo più sicuro, civile” e, appunto, “gentile” di cui parlava il “Manifesto di Assisi”, un documento “per una economia a misura d’uomo” elaborato nel 2021 dai francescani del Sacro Convento e da Symbola e firmato da personalità dell’economia, della cultura, dell’università, delle imprese e di una lunga serie di associazioni della società civile, a cominciare da Assolombarda e Confindustria. E si risente la forza della lezione delle encicliche di Papa Francesco e di un’ampia parte della migliore letteratura economica che, dopo gli squilibri della finanza rapace e della globalizzazione selvaggia, prova a definire condizioni che sappiano tenere insieme mercato e socialità, competitività internazionale e benessere diffuso, democrazia politica ed economica e partecipazione. I valori forti di un’Europa da rilanciare e fare rivivere, peraltro, contro chiusure, egoismi nazionalistici, protezionismi.

Tra le fonti d’ispirazione, c’è una consapevolezza, quella che ha ispirato l’impegno politico di Alex Langer, uno dei leader dell’ambientalismo italiano: “La conversione ecologica andrà avanti solo quando sarà socialmente accettabile”.

L’esempio delle migliori imprese italiane e l’impegno delle associazioni culturali e sociali vanno proprio lungo questa strada virtuosa. Per costruire “tempi” più civili, a misura della persona umana.

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Le trappole del "lavoro povero”, della fuga dei cervelli e le scelte di sostenibilità delle imprese italiane - Antonio Calabrò | Huffington Post

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