La collaborazione tra aziende, università ed enti di formazione e ricerca sta acquisendo una centralità inedita nel panorama nazionale e internazionale dell’open innovation, a suon di benefici concreti, investimenti congiunti e partnership solide. Se fino a qualche anno fa le imprese e il mondo della formazione, soprattutto pubblico, erano separate da un vero e proprio muro di diffidenza più o meno reciproca, di quel muro sono ormai rimasti pochi ciottoli di resistenza.
Da un lato le imprese che hanno preso atto dell’impossibilità di fermarsi al proprio perimetro della ricerca e dello sviluppo, pena la perdita di competitività, mercato e competenze. Dall’altro i centri di ricerca e gli enti accademici, sempre più proattivi nei confronti delle industrie che possono accogliere e valorizzare le innovazioni, in una logica di trasferimento tecnologico. Ma anche e sempre più di trasferimento di know-how. Questo vero e proprio cambio di paradigma, basato sulla più classica delle logiche win-win, affonda le sue radici nel tanto famoso quanto problematico mismatch di competenze.
Nel nostro Paese la domanda delle aziende e l’offerta di talento, in particolare nelle discipline cosiddette STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), faticano infatti da tempo a trovare un punto di incontro, o ancor meglio di equilibrio. Il divario rischia inoltre di acuirsi ulteriormente, perché l’innovazione sta assumendo delle velocità di sviluppo tecnologico e di scarico a terra che non concedono troppi tentennamenti, o chissà quante pause di riflessione. La buona notizia è che sulla collaborazione tra il mondo imprenditoriale e il mondo accademico e della formazione si registra un giudizio unanime, che converge sulla necessità di accelerare, consolidare e rilanciare.
L’obiettivo di sistema annunciato da più parti è trasformare un quadro in chiaroscuro che finora ha accompagnato questa relazione. Secondo alcune rilevazioni elaborate nel 2024,[1] oltre il 70% delle imprese italiane considera la relazione con il mondo accademico essenziale per il proprio sviluppo. Insomma, la presa di coscienza è diffusa. Eppure, se alziamo lo sguardo all’impegno complessivo in ricerca e sviluppo, ossia il campo su cui la collaborazione può offrire i suoi frutti migliori, il terreno da arare è ancora ampio. L’Italia investe infatti ancora meno del 2% del Prodotto Interno Lordo in ricerca e sviluppo[2]. Un dato inferiore alla media europea del 2,3% e lontano dalla performance delle altre due potenze manifatturiere d’Europa, ossia la Germania (3,1%) e la Francia (2,2%).
La Banca Mondiale evidenzia come attualmente il contributo del settore privato alla ricerca e sviluppo nel nostro Paese sia inferiore rispetto alla media OCSE, con una forte dipendenza dai finanziamenti pubblici. È vero che la capacità di innovazione dell’Italia è migliorata negli ultimi anni[3], ma è altrettanto vero che la stessa capacità rimane limitata rispetto ai leader globali, principalmente a causa della frammentazione della ricerca e della difficoltà nel trasferire i risultati scientifici nel tessuto industriale. L’antidoto a questa dispersione e mancata valorizzazione delle competenze, del talento e delle eccellenze, spiegano gli stessi osservatori nazionali e internazionali, è essenzialmente uno. Tanto semplice quanto complicato, ma imprescindibile: collaborare di più, collaborare meglio.
Una tinta di chiaro che va in quest’ultima direzione è arrivata recentemente dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) che ha destinato circa 11 miliardi di euro alla ricerca e innovazione con l’obiettivo di incentivare la creazione di partenariati tra atenei e imprese. I cosiddetti "Partenariati estesi" coinvolgono infatti università, centri di ricerca e aziende in progetti finalizzati a sviluppare tecnologie avanzate in settori strategici come la mobilità sostenibile, le energie rinnovabili e l’intelligenza artificiale. Sulla stessa scia si inseriscono anche i "Patti territoriali dell’alta formazione per le imprese” promossi dal Ministero dell’Università e della Ricerca, che mirano a rafforzare la collaborazione tra il mondo accademico e il tessuto imprenditoriale locale, promuovendo la formazione di competenze adatte alle esigenze del mercato del lavoro. In poche parole, colmare il già citato disallineamento tra offerta e domanda di talento.
L’aumento delle iniziative congiunte tra imprese, università e altri centri di formazione in Italia lascia comunque ben sperare. E alcuni esempi in particolare sembrano tracciare una direzione nitida e orientata a rapporti di lungo periodo. Si pensi ad esempio al programma avviato da WeBuild, grande gruppo italiano dell’edilizia e dell’ingegneria, che in collaborazione con l’Università degli Studi di Genova ha istituito UniWeLab. Si tratta di un laboratorio di ricerca congiunto che forma giovani talenti e sviluppa soluzioni innovative nel campo delle infrastrutture: un’iniziativa che permette agli studenti di lavorare su progetti concreti, con accesso a strumenti e metodologie avanzate, favorendo un apprendimento esperienziale che facilita il loro ingresso nel mondo del lavoro. Iniziative di questo tipo consentono alle aziende di ridurre al minimo i tempi di ricerca e di onboarding dei talenti, poiché quest’ultimi sono stati formati proprio sulle attività reali d’impresa. Al tempo stesso, gli atenei non solo massimizzano il tasso di placement degli studenti e delle studentesse, ma sono anche sempre più allineati alle reali esigenze dei tessuti industriali.
Un altro caso di rilievo è rappresentato da un’altra grande realtà italiana, ossia Angelini Industries. Il gruppo, che vanta diverse collaborazioni con università e centri di ricerca, ha puntato con decisione sulla creazione di una vera e propria academy per la formazione dei talenti e la crescita professionale dei futuri leader aziendali. Emblematico il percorso sviluppato in partnership con SDA Bocconi, che da diversi anni combina formazione teorica in aula ed esperienza diretta in azienda per formare leader professionali in grado di guidare e indirizzare l’innovazione nei settori strategici in cui opera il gruppo, dalla farmaceutica alla cosmetica. Una logica simile si nasconde anche dietro il master in sviluppo e stoccaggio delle risorse naturali che unisce Eni al Politecnico di Torino. Il percorso offre una formazione specialistica e verticale sull’energia, con un focus sulle tecnologie innovative per la gestione delle risorse naturali e ambientali. Anche qui le attività di ricerca non mancano, così come non manca l’applicazione diretta delle competenze acquisite nei relativi contesti industriali e di lavoro.
Altrettanto interessante è la sfida lanciata tra le montagne e le valli di Bolzano da Q36.5, azienda nata come laboratorio di ricerca per lo sviluppo di abbigliamento tecnico sportivo innovativo. La società, che deve il proprio nome alla temperatura corporea ideale dei ciclisti, ha attivato una rete con partner tessili italiani per innalzare ulteriormente le prestazioni dei tessuti, facendo leva sull’innovazione dei materiali e di design. Un network che punta a favorire e a scalare il trasferimento tecnologico dai laboratori all’industria, con il vantaggio di avere un’aderenza pressoché totale alla domanda del mercato in quanto lo sviluppo nasce proprio dall’osservazione del mercato stesso e dall’analisi delle esigenze dei consumatori.
Qualche grado in più accompagna invece l’Aerotech Academy, nata dalla collaborazione tra Leonardo, il Politecnico di Bari e l’Università del Salento. Il programma, attivato presso il sito Leonardo di Grottaglie, propone un percorso di alta formazione interdisciplinare incentrato sull’aerospazio e la manifattura avanzata. L’obiettivo dichiarato di Leonardo è formare giovani talenti da inserire all’interno delle proprie attività industriali, pescando dai circa 20 studenti coinvolti ogni anno tra lezioni teoriche, attività sperimentali e project work. Ancora una volta, si innesca un rapporto win-win per cui l’impresa riesce a colmare più rapidamente un gap di competenze, l’università centra la sua missione massima e lo studente entra più rapidamente nel mercato del lavoro.
Sempre dal Sud arriva un’altra esperienza di rilievo che coinvolge diversi partner. Anche quest’anno Maticmind, realtà italiana specializzata in soluzioni ICT, ha rinnovato la propria intesa con l’Università degli Studi di Napoli Federico II e con il colosso americano Cisco. L’accordo prevede lo sviluppo di un programma di formazione ospitato all’interno del polo universitario di San Giovanni a Teduccio (lo stesso che dal 2016 ospita la Apple Academy) che punta a rispondere alla crescente domanda di competenze digitali avanzate. Per l’azienda italiana si tratta di un’iniziativa strategica per individuare nuovi profili da inserire direttamente nei propri team di lavoro, rafforzando così la competitività tecnologica dell’azienda.
Insomma, le esperienze virtuose non mancano e dimostrano la bontà di un’open innovation che coinvolge aziende, università ed enti ricerca e formazione, generando un valore concreto in termini di innovazione e di competenze per ogni player coinvolto. Modelli esportabili in tanti altri settori strategici, dalla corsa allo spazio all’agricoltura 5.0, che potrebbero aiutare l’Italia a colmare il divario di competitività digitale e a valorizzare ulteriormente le eccellenze industriali, accademiche e della ricerca sparse sul territorio.