L’opera è un’arte — la più multidisciplinare tra le performing arts — che ha necessità, più di altre, di essere viva, contemporanea, vissuta, empatica. Per renderla più accessibile e liberarla da barriere cronologiche, architettoniche, comunicative e semantiche, bisogna abbattere diversi muri.
Per tanti anni l’Opera è stata considerata un genere elitario per l’alta società. Per diversi decenni, all’interno di questo target, tutti conoscevano la Prima della Scala, le personalità famose protagoniste, le grandi acconciature, quasi senza neanche tenere in considerazione il titolo che sarebbe stato rappresentato di lì a breve.
Mentre in Italia questo cliché è durato a lungo creando una profonda distanza con la comunità, in Europa in questi ultimi anni si è lavorato molto per rendere l’Opera un genere accessibile a tutti, in tutti sensi: dai costi dei biglietti, alla promozione e divulgazione, fino alle attività collaterali alla stagione operistica, nell’intento di uscire dai teatri e incontrare le persone per strada (come, ad esempio, i Flashmob, arrivati in Italia anni dopo). Per aumentare il coinvolgimento sociale, dagli anziani ai bambini, da un ventennio queste realtà si sono dotate di dipartimenti dedicati alla didattica e all’educazione e, per migliorare l’accessibilità fisica, si è lavorato molto progettando e realizzando percorsi sonori e tattili per non vedenti e per persone con altre disabilità, progetti per i senza dimora, etc. Mentre all’estero l’opera è stata caratterizzata da questo fermento, in Italia si è cercato di proteggere un genere, chiudendolo tra gli stucchi e gli ori, allontanando sempre più il pubblico dal Teatro. La nascita delle Fondazioni non ha aiutato molto da questo punto di vista. Oggi spesso ci ritroviamo in grandi teatri dove il pubblico si divide tra stranieri, che dopo qualche selfie con sfondo il bel teatro vanno a mangiare annoiati, o invitati di grandi Aziende che, in coda per andare ai servizi, lamentano la durata degli spettacoli e non vendono l’ora di poter uscire.
Peccato perché l’Opera e il Teatro Musicale hanno tanto da raccontarci e ancora tanto da dirci. Intanto perché trattano temi immortali e quanto mai attuali e contemporanei.
Basta prendere Carmen e il femminicidio, Rigoletto e il possesso e la clausura, Macbeth e il potere, Nabucco e i migranti, giusto per citarne alcuni. Per questo, ben vengano le regie contemporanee (ci sarebbe bisogno di un altro testo per parlarne) che ci raccontano oggi queste storie emozionandoci, raccontando il nostro vissuto, spesso difficile da sostenere da soli, ma che attraverso l’esperienza vissuta insieme agli altri spettatori, commuovendoci, ridendo, discutendo e applaudendo, è vissuta meglio grazie al senso di condivisione che l’esperienza a teatro restituisce. D’altronde questo è quello che permette di fare la catarsi, ricordando il senso civico e sociale del teatro greco.
E poi la musica, immortale, che ci parla, in maniera diretta e empatica, raccontandoci storie che hanno divisioni di linguaggi e di genere (e anche sulla necessità di musica contemporanea, se ne parlerà un’altra volta). Da qui la necessità di lottare per un teatro senza barriere.
Senza barriere di età. Importante proporre l’opera a tutti, da 0 a 99 anni. Finalmente anche l’Italia sta lavorando sui progetti educativi. La formazione è fondamentale in collaborazione con il mondo scolastico a tutti i livelli. Tra gli esempi, più consolidati, proprio perché si è da subito rapportata con l’Europa, c’è Opera education, best pratice per aver introdotto un format innovativo di teatro musicale rivolto ai bambini fin dalla gestazione (Operameno nove), oltre ad un nuovo Format Opera Crime di teatro musicale interattivo, capace di parlare un linguaggio meno distante, partecipativo e inclusivo.
E cosi, l’opera di colpo diventa “facile”, accattivante, cantabile, anche per migliaia di bambini che, da anni, hanno incontrato i grandi titoli del repertorio (Opera domani) giocandoci, studiandoli, disegnandoli e, soprattutto, creando un grandissimo coro che interviene durante lo spettacolo dalla platea. Una gioia ascoltarli in giro per la città cantare Nemorino o Tamino mentre vanno alle recite e, soprattutto, assistere agli applausi finali, degni di un concerto rock.
Senza barriere di luoghi. L’opera è uscita dai teatri per incontrare le persone casualmente, in contesti di vissuto quotidiano dove l’incontro è reso ancor più forte dalla vicinanza all’artista che, cantando per i pubblici presenti, li fa sentire protagonisti. L’opera entra così nelle piazze e si mescola con la gente, diventando programmazione importante e necessaria per le stagioni teatrali e i festival di tradizione. A fianco del Festival Verdi, ad esempio, da 4 anni c’è Verdi off, ormai suo necessario compagno di viaggio. Il primo, internazionale, vanta produzioni di alto profilo artistico ma anche di accessibilità più esclusiva; il secondo è una “malattia sana” che invade le strade, contaminando, coinvolgendo, includendo luoghi diversi e inaspettati, generi contaminati (dalla danza al rap, dai cori ai solisti affacciati ai balconi, dalle opere in carcere e all’ospedale pediatrico, etc.). Ormai conosciute e di successo anche le ”notti bianche dell’opera”: dalla Donizetti Night di Bergamo alla Notte dell’opera di Brescia e di Macerata, dove le città diventano un palco unico (mille palchi anzi), con centinaia di artisti impegnati in diversi spettacoli e dove il pubblico si mescola e si integra con la musica.
Senza barriere di relazioni. Il pubblico e la comunità diventano protagonisti della produzione di un progetto culturale. Partecipata da amatori ma anche dal pubblico che non è più un pubblico passivo. Caso esemplare in questo senso è quello portato avanti dal grandissimo Graham Vick, che produce da anni un’opera a Birmingham con il coinvolgimento della comunità. Centinaia di persone diventano coro o mimi per contribuire alla produzione di un’opera (da Otello a Lady Macbeth o ad una nuova commissione di Giorgio Battistelli) in luoghi speciali: dal tendone di un circo al caveau di una banca, da una fabbrica semiabbandonata a una vecchia balera, dove il pubblico, in piedi e in movimento, trova la sua personale visuale dell’opera. Da ricordare il meraviglioso Stiffelio al Farnese del Festival Verdi. E dello scorso anno il suo Flauto Magico che ha fatto tanto discutere, nel bene e nel male a Macerata, dove sul palco hanno “vissuto” e recitato in italiano 100 cittadini che hanno reso lo spettacolo vivo e attuale, rendendolo accessibile. I 100 cittadini sono diventati cosi i più grandi ambasciatori dell’opera (per la maggiore parte non ne avevano mai vista una) e hanno addirittura fondato una pagina Facebook intitolata Gruppo psicologico di sostegno al Flauto magico, perché all’ultima recita hanno pianto per ore, già in astinenza.
Più recente (ma giunta alla 7a edizione) l’esperimento del Teatro Sociale di Como/Aslico, il progetto 200.com. In questo caso, per un anno, più di 250 persone del territorio provano in teatro, studiano i cori di un’opera da mettere in scena insieme a dei professionisti, in una piazza, evitando performance frontali, a vantaggio di uno spettacolo immersivo. Oltre che per il pubblico e gli amatori, questi progetti sono fondamentali per gli artisti. Una linfa nuova, sincera, diretta che li travolge, grazie a
spettatori che ridonano agli addetti ai lavori un’autenticità spesso perduta tra le pareti e le distanze delle convenzioni teatrali.
L’opera succede li, insieme e a fianco ai pubblici raggiunti, in contemporanea con il loro vissuto. E questo è quello che conferisce all’opera una forza incredibile. Mai come oggi, l’opera che racconta storie immortali e sempre più contemporanee, può parlarci e aiutarci a ricreare una comunità condivisa e consapevole. Mai come oggi, questa arte che ci appartiene, può portarci a restare umani.