La recente conclusione della Settimana sociale dei Cattolici italiani, per quanto dedicata al tema della democrazia, ha anche richiamato la partecipazione nelle “imprese civili”, di fatto rilanciando il ruolo dei fini dell’impresa e del profitto.
Riecheggiano le parole di Adriano Olivetti quando nel 1955 scriveva: “Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?”. Un interrogativo che parte da lontano se nel 1458 Benedetto Cotrugli, un imprenditore e umanista vissuto nella Napoli aragonese, descriveva la mercatura (l’imprenditorialità di allora) come “un’arte … ordinata secondo giustizia e relativa alle cose commerciali per la conservazione del genere umano, ma pure con la speranza di guadagno”.
Saltando tre secoli, in pieno illuminismo, Antonio Genovesi nel 1758 nelle sue “Lezioni di commercio o sia di economia civile” descrive un’economia che deve puntare alla “felicità pubblica”, dove il business fa parte di una rete di relazioni fiduciarie reciproche e in cui l’impresa diviene una forma di esercizio anche di virtù civiche perché è il “buon costume”, fatto da risorse morali ed economiche, alla base dello sviluppo complessivo della persona e della società.
Un percorso di laboriosità che si collega alla libertà e all’innovazione: veniamo ai giorni nostri, secondo il Premio Nobel per l’economia Edmund Phelps il dinamismo economico è frutto dell’evoluzione dei valori di una società. Per fare “innovazione indigena” serve rilanciare i valori della modernità: capacità individuale, vitalità, autonomia, realizzazione del sé, per dare vita a una società fiorente (flourishing), dove immaginazione e creatività sono al centro. Occorre ridare senso, dignità e orgoglio al lavoro nell’impresa, centrale per il rilancio della produttività perché “la minore soddisfazione sul lavoro comporta insoddisfazione per la vita e quindi anche una più bassa crescita, mentre anche lealtà e altruismo spigano la crescita delle performances economiche della nazioni”. Tesi molto distante da quella di un altro Premio Nobel per l’economia e padre del neoliberismo, Milton Friedman, che nel 1970 descriveva il fine “etico” unico dell’impresa (manageriale) come quello del conseguimento del profitto.
Se guardiamo alle caratteristiche del nostro Paese vediamo che la storia economica italiana è fortemente basata su di una cultura della sussidiarietà e della coesione, intrecciata con l’impegno “civile” dell’impresa. Nella (semplicistica) contrapposizione tra stato e mercato, la valorizzazione di una sussidiarietà, non solo nei rapporti sociali, ma anche in quelli di natura più squisitamente economico-produttiva, è la chiave per una crescita che contempera l’attenzione per le persone e la società con i legittimi obiettivi di profitto dell’impresa.
L’impresa civile è una impresa coesiva che esprime un più ricco e vasto sistema di relazioni sia al proprio interno, sia con riferimento al più ampio contesto esterno, attenta ai temi della crescita del capitale umano, alla partecipazione ad iniziative di tipo ambientale e sociale, alla cooperazione con le istituzioni del territorio e più in generale alla collaborazione con il mondo del volontariato e delle comunità.
L’Istituto Tagliacarne-Unioncamere insieme a Symbola ne ha fatto una valutazione stimandole nel 43% delle pmi manifatturiere, in crescita rispetto al 32% del 2018.
Relazionalità coesione e convenienza aziendale sono qualità che si alimentano a vicenda e si traducono in performance migliori delle imprese “coesive” tanto per le dinamiche di fatturato (nel 2024 sono il 34% le imprese coesive che stimano aumenti di fatturato rispetto al 2023, contro il 25% delle altre), quanto per l’occupazione (25% di indicazioni di incremento nel 2024 rispetto al 16% delle altre imprese) che per le esportazioni (27% contro 21%).
Ma le imprese coesive prevedono anche una crescita nel 2024 delle quantità prodotte (nel 30% dei casi contro il 22% delle non coesive). E questi andamenti distintivi si confermano anche per le previsioni 2025 per tutti i parametri considerati.
In coerenza con le indicazioni di Phelps la coesione migliora la sfida innovativa sulla “doppia transizione”. Le imprese coesive sono più propense all’innovazione digitale e a quella green: il 28% delle imprese coesive ha già adottato, o ritiene di farlo a breve, innovazioni nell’ambito di Transizione 4.0, contro l’11% delle altre imprese, e il 39% ha investito in eco-sostenibilità contro il 19% delle altre imprese.
Le imprese coesive sono frutto di un humus dei territori e anche dei valori che questi territori esprimono, soprattutto sono il risultato di sistemi fiduciari solidi e consolidati, il che spiega perché le regioni italiane in cui c’è una maggior livello di fiducia interpersonale e maggiore partecipazione civica esprimono una più consistente presenza di imprese di questo tipo, laddove in diverse regioni del Mezzogiorno, dove minori sono questi fattori, la consistenza di coesive è più bassa.
Ma allora se si vuole sviluppare un contesto di maggior relazionalità d’impresa e migliorare la competitività del sistema imprenditoriale, oltre a una policy industriale, serve il rilancio di una policy per la coesione sociale, perché la fiducia c’è e si diffonde dove si assiste a una minore diseguaglianza in termini di reddito, ma anche a una crescita di opportunità e prospettive per le persone, in particolare per i giovani, e più in generale per le società locali.