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Redazione

È il paradosso Milano! La capitale della finanza, della moda, la città dove si consuma e la vita è cara, il fulcro economico d’Italia che certo ha acquisito un profilo post-industriale, ma è ancora l’emblema della “fabbrica” è al tempo stesso un vessillo agricolo e agroalimentare.
Pochi ci fanno caso, ma su 18 mila ettari di superfice urbana, quasi 3 mila sono coltivati e rendono Milano il secondo comune agricolo d’Italia. Ci sono tre parchi agricoli dove insistono almeno una trentina di aziende e se si prendesse in considerazione l’area metropolitana si scoprirebbe che su 133 comuni almeno due terzi (alcuni piccoli per dimensione geografica) hanno a che fare con i campi; del resto i numeri lo dicono: su 1575 chilometri quadrati quelli urbanizzati sono il 40%, in compenso però ci sono oltre 680 chilometri tra fiumi e canali che fertilizzano questa sub-regione. Milano è agricoltura anche perché con l’Expo 2015 si dette un eccezionale colpo di manovella alla ri-comprensione della centralità de settore primario, perché si offrì all’agroalimentare italiano una eccezionale occasione di confronto col mondo. Non va dimenticato che la Lombardia è uno dei distretti agroalimentari di punta.

Ma Milano ha a che fare con il valore e la tradizione agricola perché conserva un faro di civiltà rurale: l’abbazia di Chiaravalle. Lì, i cistercensi hanno messo a punto tecniche di coltivazione (e ancora oggi si può comprenderne la potenza) che hanno cambiato il corso della nostra zootecnia: con le marcite avevano sempre foraggio fresco e foraggio fresco ha significato latte da conservare inventando il Grana. La vocazione casearia della Lombardia probabilmente trae origine da questa presenza benedettina che ha fertilizzato “tecnologicamente” le stalle lombarde. L’articolazione casearia di questa terra è infinita e scorrendo i disciplinari di produzione dei formaggi si può disegnare una mappa della Lombardia che va dalle cime più alte della Valtellina alle pianure “umide” del mantovano con una declinazione di tecniche produttive, di sapori di rapporto con l’ambiente davvero unica.

Si parte dal Gorgonzola, il re degli erborinati nato forse per errore durante le transumanze quando le vacche tornavano dagli alpeggi al piano e in quel piccolo borgo si prese a provocare la fioritura batterica per avere questo formaggio unico. Del resto, anche il termine erborinato è perfettamente lombardo: l’erburin per un meneghino è il prezzemolo e quelle striature di muffe nobili che percorrono le forme del Gorgonzola paiono proprio coltivazioni di prezzemolo! Ma ecco un parente strettissimo: lo Strachitunt che nasce in val Taleggio, la patria di un altro immenso formaggio, il Taleggio appunto, che inebria e si costituisce dei paesaggi delle sue terre ed è espressione altissima della zootecnia di montagna.

Dagli alpeggi, ecco il Furmai de Mut dell’Alta Val Brembana e il Nostrano della Valtrompia dove la terra bresciana s’increspa e viene percorsa dalla via del ferro; dai terrazzamenti della Valtellina ecco la Casera e sua maestà il Bitto. E che dire di formaggi esclusivissimi come il Bagoss che si fa solo a Bagolino con la sua pasta semidura allo zafferano. Non è una DOP, ma è la dimostrazione di una propensione delle comunità lombarde a interpretare l’arte casearia. E se volessimo inerpicarci negli anfratti alpini, ecco il Silter che viene dalla val Camonica, una DOP recentissima nell’acquisizione del marchio atavica nella tecnica di produzione, come del resto il violino di capra che è tra i salumi forse il più esclusivo.

Il carrello dei formaggi lombardi prosegue con lo stracchino, ubiquitario, con l’ormai rarissimo Panerone lodigiano (latte crudo, grasso, profumatissimo), col Provolone (anch’esso ubiquitario), col Quartirolo, col Selva Cremasco e la Formaggella del Luinese, a ricordarci che ovunque c’è pascolo, lì la Lombardia produce per poi glorificarsi nei numeri e nelle quantità col Grana Padano e con la produzione mantovana di Parmigiano Reggiano. E la lista dei formaggi tradizionali si allunga di un’altra sessantina di specialità quasi che ogni cascina avesse una sua specifica produzione a dire quanto anche in una terra fortemente inurbata la produzione agricola risponde e si conforma a una dimensione vernacolare. Lo stesso vale per l’altro grande filone delle produzioni lombarde: quelle norcine. I salami, su tutti quello di Varzi e quello Brianza, a cui si accoppia il salame Milano che certo non porta il marchio DOP, ma ha fama internazionale. Lo stesso vale per Mortara con il suo salame d’oca, uno dei vanti gastronomici dell’Oltrepò che si fregia dell’IGP così come il salame di Cremona. E se andando in giro per la val Camonica oltre al già citato violino di capra s’incontra la brisaola non è che l’annuncio di uno dei prodotti più noti della dispensa lombarda: la Bresaola della Valtellina Igp. Un prodotto che è una sorta di testimonianza antropologica: il prefisso “bre” sta per “bue” nelle lingue germanoceltiche a dirci che in quelle valli alpine s’incontrarono popolazioni che calavano verso il sole da ogni latitudine europea, consentendo un meltin pot ante lietteram che ha arricchito le capacità agricole.

E rimanendo in Valtellina non si possono non citare i pizzoccheri, altissima testimonianza della capacità di mettere a coltura anche le terre marginali visto che si fanno con sfarinati vari di cui il primo è il grano saraceno. Alcune delle produzioni più famose della confinante Emilia hanno nei piccoli centri zootecnici lombardi delle nicchie di produzione, così come non deve stupire che ben due oli extravergine DOP si estraggano dalle colline dei laghi. Anzi, va detto che proprio l’extravergine ha riportato nelle colline gardesane la pratica agricola, che si esplica con prodotti d’eccellenza ed esclusivi come l’asparago di Cantello, la mela della Valtellina, il melone mantovano o la pera mantovana, peraltro ingrediente fondamentale per una delizia assoluta come la mostarda. Vi è in Lombardia un evidente rapporto tra gastronomia e agricoltura che esplicita nella variabilità alimentare la diversità di paesaggio, finendo per fare di questa terra una sorta di emblema della specificità italiana.

 

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