“Promuoviamo l’Italia che fa l’Italia”. Vogliamo partire da questa affermazione?
Noi da sempre diciamo che “l’Italia deve fare l’Italia!” Dietro questo slogan c’è sicuramente un elemento identitario: ti apri quando tu hai una identità forte. Mi piace a tal proposito citare una frase di La Pira “solo gli animali privi di spina dorsale hanno bisogno del guscio”. In biologia questa affermazione non è vera, ma La Pira non era un biologo… La Pira voleva esprimere un concetto importante, che una identità forte è la premessa per una apertura. Al contrario, quando le identità sono deboli o degenerate si costruiscono muri.
Uno dei cardini di Symbola è la coesione e il fare comunità: quanto è importante lasciare un ruolo primario alle persone, al centro del nostro Made in Italy?
A mio avviso la capacità dell’Italia di stare al mondo in tutti i campi, incluso quello economico, deriva dalla difesa della sua anima, della sua antropologia produttiva. Ricordo una famosa copertina di Time Magazine del dicembre 2005, usata da Symbola quando nacque, dedicata a un servizio titolato “Italia contro Cina”. La tesi era che l’Italia era finita, in quanto la Cina faceva le stesse cose che faceva l’Italia e che quindi ci avrebbe soffocato da un punto di vista produttivo ed economico. La copertina rappresentava un braccio di ferro tra un guerriero dell’armata di terracotta cinese e il David di Michelangelo. Era possibile una lettura molto diversa: quella di una rissosa piccola città, Firenze, che nel primo ‘500 aveva circa 50.000 abitanti, ma in moltissimi campi produceva eccellenze: nell’arte, nella finanza, nella tecnologia, come la Cupola del Brunelleschi, che fu anche una sfida tecnologica. Quella Firenze manifestava tutte le contraddizioni dell’Italia, che non pregiudicano però la capacità italiana di emergere quando entra in campo il bello, l’estetica. C’è un bel passo di J.K. Galbraith del 1982 nel quale si chiede “Come hanno fatto gli italiani a risollevarsi nel dopoguerra?” esagerando nell’enfatizzare gli aspetti negativi del nostro Paese e sostenendo però alla fine che gli italiani ce l’hanno fatta perché “hanno imparato a tradurre la bellezza delle città negli oggetti”.
Cosa serve al nostro Paese per salvaguardare la qualità, quel valore che il mondo ci riconosce da sempre?
Senza un legame di relazioni, tante cose che l’Italia è stata ed è capace di fare non esisterebbero. Ad esempio, i “distretti”, ed oggi anche le reti, che costituiscono un modello di infrastruttura di relazioni e di condivisione di valori che rendono possibile il lavoro comune. Un modello che altri paesi hanno tentato di imitare senza successo. Prendiamo ad esempio la costruzione degli Yacht di lusso, un settore nel quale siamo leader: sono costruiti in Italia circa la metà degli Yacht esportati nel mondo. Ma dietro quelle imbarcazioni, oltre a tecnologia ed estetica, ci sono distretti, reti, saperi, ad esempio quello dei maestri mobilieri che realizzano gli allestimenti interni. Lo stesso per la concia, settore difficile per il suo impatto ma vincente nel caso di prodotti di qualità che si nutrono di innovazione, relazioni e maggiore rispetto per ambiente e lavoratori. E questo “saper fare” di qualità lo ritroviamo nel retroterra di tante imprese italiane. Serve quindi la capacità di riconoscere le radici immateriali del nostro saper fare. Purtroppo, siamo deboli nelle politiche industriali e nelle politiche di indirizzo. Siamo deboli quando si tratta di scegliere i campi nei quali concentrare le risorse tecnologiche del Paese. Personalmente ho ancora il rimpianto del fatto che l’Olivetti ha inventato il personal computer, ma nel definire una strategia fu detto che se fosse stato un prodotto valido, si sarebbero fatti avanti gli americani, che poi si fecero avanti... Non è una debolezza recente, ma spesso non riusciamo a capire che il mondo sta cambiando, così come le grandi aziende, che hanno spesso la bussola orientata sugli interessi immediati degli azionisti e non sui cambiamenti necessari.
Cos’è per te il Made in Italy?
Quando penso al Made in Italy io penso sempre ad una frase sintetica ma molto efficace di Carlo Maria Cipolla “Gli italiani sono da secoli abituati a produrre all’ombra dei campanili cose belle che piacciono al mondo”, che poi è quel tratto che attraversa trasversalmente la forza delle nostre produzioni. Io penso che dovendo portare qualcuno in un posto per far capire cos’è il Made in Italy, li porterei al museo del Compasso d’Oro dell’ADI, l’Associazione per il Disegno Industriale. Un luogo nel quale è sufficiente guardarsi intorno per capire chi sono gli italiani e cos’è il Made in Italy. Prodotti che oltre tutto hanno un rapporto forte con le comunità e con i territori, e che sono la premessa per una efficace politica di contrasto alla crisi climatica: quando si produce ricchezza impegnando minori risorse e materie prime e consumando meno energia, puntando su qualità, bellezza e territorio, si fa un’operazione estremamente ambientalista. Una parte della via italiana alla transizione verde.