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“Una svolta ecologica permetterebbe a tante imprese italiane in difficoltà di trovare una via di uscita. Essenziale però semplificare e sburocratizzare”. Intervista con il presidente della Fondazione Symbola.

La riduzione delle emissioni e il miglioramento della qualità dell’aria sono uno scenario auspicato dagli ambientalisti, ma non certo in questo modo, con la crisi economica che è figlia dell’emergenza virale. Il punto è un altro: passato l’incubo, l’economia italiana, europea e mondiale dovrà riflettere a come ripartire e, in questo senso, il pensiero ambientalista potrebbe essere d’aiuto per rivedere il modo in cui organizziamo la produzione e, soprattutto, il nostro vivere insieme.

Dopo la crisi, parole come sostenibilità, transizione ecologica e economia verde acquisteranno più senso e più popolarità? Lo abbiamo chiesto a Ermete Realacci, già parlamentare, attualmente presidente della Fondazione Symbola e presidente onorario di Legambiente.

Ermete Realacci, per ripartire, passata la crisi, è pensabile ripristinare lo status quo ante l’emergenza virale?

Oggi è innanzitutto auspicabile una fiducia nelle istituzioni e quindi il pieno rispetto delle indicazioni che da esse provengono. Detto ciò, spero che la situazione in cui ci troviamo venga utilizzata per ridefinire le nostre priorità, dalla lotta al lato oscuro della globalizzazione, all’importanza che il sistema sanitario ha rispetto alla qualità della nostra vita, fino al ruolo che la ricerca gioca nel plasmare il nostro futuro.

Sulla sanità la gente ricomincia ad ascoltare gli esperti.

Dove sono finiti i no vax? Una delle persone più intervistate in questo periodo è Ilaria Capua, virologa di fama mondiale. Ricordo ancora come, per una pressione intollerabile di una parte dell’opinione pubblica, fu costretta a dimettersi da parlamentare. A guidare la crociata contro di lei non furono solo Beppe Grillo e il suo blog, ma anche parte della stampa. Al momento, non mi risulta che nessuno abbia chiesto scusa.

Il contraccolpo economico sarà molto forte. Da dove ripartire?

Abbiamo l’occasione di riorientare la nostra economia in una direzione più rispettosa dell’ambiente e, quindi, anche più competitiva. Qui entra in gioco lo spirito del Manifesto di Assisi, promosso e condiviso da Symbola con il Sacro Convento di Assisi e altri esponenti della società civile e del mondo economico. Il Manifesto ha come base l’idea che affrontare la crisi climatica è anche la chiave per un’economia più a misura d’uomo e per questo più competitiva. Oggi più che mai non va lasciato indietro nessuno. La tenuta della coesione sociale è una componente importantissima dell’economia.

Cosa fare concretamente?

Avremo un problema enorme: come rilanciare un’economia che sarà colpita in tutti i settori? Oltre al soccorso immediato dei tanti settori colpiti, serve una coraggiosa e fortissima azione di semplificazione e sburocratizzazione, capace di mettere in moto parti dell’economia che sono fondamentali dal punto di vista ambientale.

Un esempio?

Uno dei settori più importanti dell’economia è l’edilizia. In questo senso, abbiamo davanti uno spazio enorme per la riqualificazione degli edifici e delle città. Già oggi in Italia esistono incentivi che stanno tenendo in piedi una parte importante del settore edile: il credito d’imposta, l’ecobonus, il sisma bonus e il bonus verde. Il ministro Stefano Patuanelli ha ipotizzato di portare al 100 per cento il credito d’imposta per investimenti sul risparmio energetico e fonti rinnovabili nell’edilizia. Tuttavia, se queste misure non sono accompagnate da una coraggiosa sburocratizzazione, sono pressoché inutili.

In Italia abbiamo l’incentivo di gran lunga più importante al mondo per la messa in sicurezza antisismica degli edifici, che copre fino all’85 per cento della spesa. Viene però usato molto poco perché è poco conosciuto ma anche perché le forme di utilizzo sono complicate, come spesso accade nel nostro paese.

Semplificare credito d’imposta, ecobonus e sisma bonus significa mettere in moto un sistema di imprese e una quantità di investimenti privati enorme, con strumenti che già esistono.

Più nel dettaglio cosa andrebbe fatto?

Ad esempio, è importante che il credito d’imposta sia cedibile. Una famiglia che vive in un condomino, se vuole rimettere in ordine il suo appartamento – soprattutto quando si parla di sicurezza anti-sismica – deve farlo insieme ad altri condomini, e non tutti hanno le risorse per farlo. Per superare questa situazione, un individuo deve avere la possibilità di cedere il suo credito d’imposta a qualcuno che lo recupera.

Oggi è possibile, in qualche caso, cederlo alle imprese che fanno i lavori, ma le imprese italiane sono spesso piccole e sottocapitalizzate, quindi funziona poco. Deve diventare possibile cederlo anche a terzi, come soggetti assicurativi o soggetti bancari. Questo metterebbe in moto una quantità di investimenti privati enorme, ottendendo al tempo stesso una riduzione dei consumi energetici, più sicurezza, più bellezza, maggior valore degli immobili.

C’è poi tutta la questione legata all’approvvigionamento energetico.

È il momento di investire in fonti rinnovabili, perché è economicamente conveniente. Anche in America lo hanno capito bene. Nonostante Trump abbia costruito parte del suo racconto politico puntando sul rilancio del carbone americano, da quando è presidente il consumo di carbone è calato parecchio. Sono state chiuse cinquanta centrali e, dall’ottobre scorso, tutti i nuovi impianti che producono energia elettrica, sia negli stati governati dai repubblicani sia in quelli governati dai democratici, sono alimentati con fonti rinnovabili.

Come si spiega questo fenomeno?

Gli americani sono pragmatici: se un governatore repubblicano dispone di un’energia che gli costa di meno, non investe in quella che gli costa di più solo perché il presidente, che è del suo stesso partito, ha fatto campagna sul carbone. E poi negli Stati Uniti la burocrazia è più leggera.

In Italia invece?

In Italia si potrebbe fare molto di più solo semplificando le procedure. Andrebbe permesso di ri-potenziare gli impianti eolici esistenti, andrebbero favorite procedure più semplici per il biogas, gli impianti fotovoltaici, le altri fonti rinnovabili. Il problema è riuscire a utilizzare gli istinti vitali della nostra economia: questo permetterebbe a tante imprese italiane in difficoltà di trovare una via di uscita, così come venne fatto nel 2008, quando tante piccole e medie imprese, per non licenziare i lavoratori, misero pannelli fotovoltaici sui propri edifici. Sburocratizzazione e semplificazione sono le parole chiave e questo vale per tanti altri campi.

Un altro esempio?

L’Italia è leader europeo nel campo dell’economia circolare. Recuperiamo già il 76 per cento dell’insieme dei rifiuti, una percentuale che è il doppio della media europea, molto di più anche rispetto alla GermaniaE questo ci fa risparmiare ogni anno 21 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio e 58 milioni di tonnellate di CO2.

Non è la conseguenza di leggi o decreti ma dei nostri cromosomi produttivi e di una necessità: siamo un paese povero di materie prime e questo ci ha obbligato a costruire filiere più efficienti. Si pensi ai rottami di Brescia, agli stracci di Prato o alle cartiere di Lucchesia. Anche questo settore rischia però di subire un contraccolpo perché l’Italia non ha emanato i provvedimenti che l’Unione europea ci chiede per utilizzare queste materie nei cicli produttivi.

O ancora, faccio l’esempio della Sipa, azienda dello storico Gruppo Zoppas di Vittorio Veneto che ha costruito un macchinario che consente di utilizzare il 100 per cento di PET riciclato, per fabbricare nuove bottiglie. Questo impianto è venduto nel mondo, ma non in Italia, perché in Italia c’è una legge che prevede che il massimo di PET riciclato in una bottiglia debba essere del 50 per cento. Non ha semplicemente senso. Basterebbe fare una piccola norma per togliere questo limite, che in altri paesi non c’è.

Anche nel campo dell’agricoltura si potrebbe fare meglio?

In Italia abbiamo già un’agricoltura avanzata dal punto di vista ambientale: rispetto ad altri paesi consumiamo meno energia e meno prodotti chimici. Ovviamente, bisogna fare di più. Si potrebbero prevedere, ad esempio, degli incentivi ad hoc per gli allevamenti che utilizzano meno antibiotici, favorendo il benessere animale e recuperando  i reflui degli allevamenti. Sono cose che si possono fare subito.

Anche l’Unione europea ha abbracciato la strada della conversione ecologica. Cosa ne pensa?

Per rafforzarsi, all’interno e nel mondo, l’Europa ha bisogno di una nuova missione e la necessità di combattere il cambiamento climatico è questa missione. Però l’Europa deve stare attenta: anche a questo livello sburocratizzare è più importante di annunciare enormi piani di investimenti, che spesso rischiano di restare sulla carta.

Dopo lo stress accumulato nei giorni, nelle settimane della grande paura, potrebbe esserci come reazione – una volta ripristinata la normalità – di una sorta di “scorpacciata” consumistica. Come evitarla?

Quella per uscire dalla crisi è soprattutto una partita politica, nel senso di azione comune che lega impresa, culture, valori, tecnologia, ricerca, comunità che mobilita tutti. È una partita che va giocata fino in fondo, perché, come diceva Bob Kennedy, “lo scopo della politica è addomesticare l’istinto selvaggio dell’uomo e rendere dolce la vita sulla terra”. Questa è la politica di cui ora abbiamo bisogno.

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