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di Carlo Cambi

Sì, il mal di Sicilia esiste. Non è una terra, ma un continente, non è un’isola, ma un mondo a sé stante che si è stratificato nei millenni soprammettendo le civiltà in un ambiente unico che va dal lapillo dell’Etna all’abisso del Tirreno, dalle latomie al teatro di Selinunte, dalla fonte Aretusa alla valle dei Templi, dalla Vucciria alla tonnara di Favignana. E viene in mente una frase attribuita a Federico II di Svevia che ne fu imperatore (per quasi sette secoli la Sicilia è stata infeudata al regno delle due Sicilie) che guardando il mare dal Castello di Augusta, lui, in eterna lite col Papa, pare abbia esclamato: “Non invidio a Dio il paradiso perché sono pieno del mio vivere in Sicilia.” Quello è il mal di Sicilia: non ci si può staccare dai suoi colori, dai profumi, dai paesaggi così contrastanti dalle Madonie a Vulcano, dai sapori intensissimi, dalla lirica dei luoghi, dal vento, dal sole giaguaro, da una cornucopia di prodotti che significano granita e brioscia farsumagru, pasta alla norma, gello di mellone, pistacchio, aranciata, fico d’india, mandorla e prosciutto dei Nebrodi, cacio piacentino e ninno di Sant’Agata, ventresca di tonno e giuggiulena.

Ed è solo un accenno. Come si fa a non mettere nel novero dei luoghi del paradiso del gusto una terra che produce questo. Siamo nel palazzo di Donnafugata e come ogni anno il Principe di Salina all’arrivo per la villeggiatura dà il ricevimento e viene servito il timballo: “L'oro brunito dell'involucro, la fraganza di zucchero e di cannella che ne emanava, non era che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall'interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroni corti, cui l'estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio.” Era peraltro la Sicilia dei Monsù, i cuochi nobiliari (quando resteranno disoccupati avvieranno la prima grande ristorazione all’italiana tanto in Sicilia quanto in Campania) che indussero sull’Etna sfruttando Nerello mascalese vinificato in bianco la maggiore produzione di “champagna” a cavallo tra 7 e 800.

La Sicilia è anche la più estesa regione d’Italia che ha in coltivazione oltre un milione di ettari di campagna di cui il 45% desinati a coltura permanenti: dagli agrumeti agli olivi passando per la vigna. Ha oltre il 60% di territorio collinare (e questo spiega la straordinaria biodiversità della Sicilia) e circa il 14% per cento di pianura, il ché significa grandi estensioni di seminativo e in particolare di grano duro che hanno reso la pasta siciliana famosa in tutto il mondo. Con i cambiamenti climatici la Sicilia è anche la prima regione d’Europa per coltivazione di frutti tropicali – dalle banane al mango – oltre al suo frutto “esotico” per eccellenza: il fico d’India. Estesa è anche la coltivazione di cotone (circa due terzi di quello europeo arriva da quest’isola-continente) e di papiro. Pensando ai capperi di Pantelleria o di Salina, allo zibibbo viene in mente che la Sicilia ha una collana di isole minori di impressionante valore ambientale, paesaggistico, antropico, ma anche agricolo a sostanziare il fatto che è davvero un mondo a parte.

Che ha costruito nei secoli la sua fortuna – al netto della miseria dei lavoratori agricoli – proprio sull’agricoltura, un’agricoltura basata sul latifondo estesissimo (tutta la nobiltà borbonica aveva possedimenti estesissimi, ma risiedeva negli splendidi palazzi nobiliari dei capoluoghi) lasciato nelle mani dei braccianti che venivano inurbati nelle borgate o tutt’al più nei bagli e nelle masserie. Il che ha determinato una relativamente scarsa incidenza dei piccoli comuni sul tessuto territoriale. Tenendo conto delle isole minori dove effettivamente ci sono le piccole comunità, una densità di circa 200 piccoli Comuni su un territorio vastissimo dà il senso dell’inurbamento continuo che la Sicilia ha subito facendo diventare la campagna non luogo di residenza, ma solo di fatica (e di profitto per i latifondisti). Questo ha determinato anche la presenza di produzioni estensive. Anche se negli ultimi tre decenni si è assistito a una valorizzazione dei prodotti territoriali, a un costante aumento di medie e piccole aziende agroalimentari e di una forte incidenza del valore aggiunto dei prodotti certificati sul PIL regionale. Basti dire che appena due anni fa il valore della produzione era stimato appena sotto i 70 milioni di euro con un incremento di quasi trenta punti percentuali dal 2018 al 2020. Del resto la Sicilia è terza in Italia per numero di prodotti DOP e IGP e gli operatori sono qualcosa meno di 4500.

Con in più il fatto che la Sicilia è tra le Regioni la più attiva a stimolare l’Europa per ottenere marchi sulle proprie produzioni avendo di gran lunga incrementato anche il legame turismo-campagna turismo esperienza enogastronomica. Gli ultimi certificati “arrivati” sono il cappero delle Eolie, la provola dei Nebrodi e il limone dell'Etna, mentre sono in corso d’istruttoria altri due prodotti: il pistacchio di Raffadali e la pesca di Delia. Si capisce così che l’elenco dei prodotti a marchio di origine siciliani è davvero consistente con oli extravergine di oliva, formaggi e prodotti vegetali protagonisti. A marchio IGP sono l’Arancia rossa, il Cappero di Pantelleria, la Carota novella di Ispica, il famosissimo cioccolato di Modica, il Limone Interdonato che è uno dei vanti della campagna messinese, il Limone dell’Etna, l’Olio Extravergine di Oliva di Sicilia, la Pesca di Bivona e quella di Leonforte, il Pomodoro di Pachino, il Salame di Sant’Angelo, il Sale marino di Trapani, le uve da tavola di Canicatì e di Mazzarrone. I prodotti con marchio DOP sono invece: l’Arancia di Ribera il già citato, Cappero delle Eolie, le ciliegie e il fico d’India dell’Etna, il Fico d’India di San Cono, il Foraggio Piacentinu Ennese, il Pecorino siciliano, il Formaggio Ragusano, la Vastedda della valle del Belice, il Limone di Siracusa, la Nocellara del Belice, gli oli extravergine del Monte Etna, dei Monti Iblei, Val di Mazzara, Valdemone Valli del Belice e Valli Trapanesi, il Pistacchio verde di Bronte e quello già citato di Raffadali, la Pagnotta del Dittaino e come detto la Provola dei Nebrodi.

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