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L’obiettivo dell’impresa è produrre beni e servizi, a condizioni economicamente vantaggiose, graditi al mercato. Fare, insomma. E fare bene. Nel passaggio in corso a una economia del primato degli stakeholders (dipendenti, fornitori, consumatori, cittadini delle comunità di riferimento dell’impresa), c’è una terza dimensione su cui insistere: fare del bene. E cioè produrre valore economico (profitti, andamenti di Borsa, remunerazioni per gli azionisti) rispettando e perseguendo una serie di valori, morali e sociali. La lezione di Adriano Olivetti sull’impresa che non si può ridurre solo all’indice dei profitti e quella di Leopoldo Pirelli sulle responsabilità sociali del buon imprenditore trova nuove eco.

È un capitalismo che si rinnova, insomma, nel segno dell’economia circolare o anche “giusta” (per tenere conto dell’insistente lezione di Papa Francesco) e della sostenibilità, ambientale e sociale. Supera i guasti provocati dalla rapacità del primato della finanza d’assalto (in tutte le declinazioni speculative di quel “greed is good”, dell’avidità e della cupidigia celebrate come comportamenti positivi da Gordon Gekko, l’esemplare protagonista di “Wall Street”, interpretato da un efficace Michael Douglas). E insiste su un vero e proprio “cambio di paradigma” secondo cui la crescita dell’economia di mercato non può avvenire se non nel contesto di una attenzione speciale per i “beni comuni”, per gli interessi della comunità, per il rispetto delle persone. Per una solida democrazia economica.

Non si tratta solo di una inclinazione benevola, da parte delle imprese. Ma di una vera e propria svolta etica e culturale, anche con la consapevolezza che “essere buoni conviene”, per usare una brillante sintesi di Ermete Realacci, presidente di Symbola. Perché, come documentano appunto le ricerche dell’associazione sull’economia green e ricca di impegni e risvolti sociali, “le imprese coesive, cioè quelle solidali e attente agli equilibri delle comunità del loro territorio, sono più competitive e innovative, ma anche più capaci di export”.

In questo quadro, ha un peso crescente anche il volontariato aziendale, come spiega bene un libro che si intitola appunto “Il volontariato aziendale - Profit e non profit insieme per il bene di comunità e territori” scritto da Patrizia Giorgio, Laura Guardini e Renata Villa e appena pubblicato da Egea, con una prefazione di Ferruccio de Bortoli e un contribuito di Rossella Sobrero.

Le tre autrici hanno messo a frutto le loro esperienze in contesti molto diversi ma complementari, tra imprese, attività del “terzo settore” e un “laboratorio” che favorisce il dialogo i tra i due mondi. Con l’obiettivo prioritario di “far comprendere che un progetto di volontariato aziendale è efficace solo se viene pensato, pianificato e promosso attraverso una partnership in cui impresa e organizzazione non profit sono sullo stesso piano, in un rapporto paritario, simmetrico e di reciprocità”. Un quadro della situazione. E una vera e propria bussola in grado di orientare le imprese a impegnarsi, con esempi concreti di attività e criteri di valutazione dei risultati.

Tutto nasce nel 2015, dall’incontro tra due donne intraprendenti, Lina Sotis, giornalista del Corriere della Sera e fondatrice dell’associazione “Quartieri tranquilli” e Patrizia Grieco, manager di solide esperienze, allora presidente dell’Enel. L’obiettivo comune è incoraggiare i dipendenti delle imprese a partecipare, in orario di lavoro, alla realizzazione di progetti di carattere solidale, collaborando appunto con una organizzazione non profit. Nel tempo, la Fondazione Sodalitas (nata nel 1995 per iniziativa di Assolombarda e di un gruppo di imprese milanesi e oggi presieduta da Alberto Pirelli) si è impegnata nell’iniziativa, mettendo a disposizione la propria esperienza di volontariato. E oggi ci si muove per allargare l’ambito delle attività, in una condizione di crescente interesse, sia delle aziende che dei loro dipendenti, per l’impegno sociale.

L’ultimo rapporto di CECP (Chief Executives for Corporate Purpose) su un campione di imprese a livello internazionale, rivela che la percentuale media di dipendenti che hanno fatto almeno un’ora di volontariato aziendale nel 2022 è stata del 19,8%, in aumento di circa il 3% rispetto al 2021. Si tratta di un incremento del fenomeno ancora limitato, rispetto al tasso del periodo precedente alla pandemia Covid, che era del 29% nel ‘19. E solo in alcuni settori come quello energetico, finanziario e nei servizi di pubblica utilità la crescita della partecipazione è più sostenuta. Ma, nonostante tutto, la crescita continua.

E in Italia? Il volontariato aziendale, spiega il libro, “è ancora una pratica in fase di sviluppo. E le aziende più attive sono principalmente le sedi italiane di multinazionali estere”. Una ricerca sviluppata da Fondazione Terzjus nel 2023, con la collaborazione dell’ufficio studi di Unioncamere, “ha rilevato che a livello nazionale solo il 5% delle imprese che impiegano almeno 50 dipendenti sviluppa iniziative di volontariato aziendale, e di queste il 39,4% si orienta verso il volontariato di competenza”, la messa a disposizione di persone che, grazie appunto alle loro competenze aziendali, collaborano a rendere più funzionali ed efficaci le iniziative di “terzo settore”. Più in generale, la ricerca mostra comunque come “il volontariato non sembra essere un fenomeno residuale nel tessuto economico del Paese, dal momento che coinvolge direttamente circa un terzo delle imprese medio-grandi (31%), le quali già consentono (o pensano di farlo a breve) ai lavoratori e ai manager di impegnarsi nel sociale”.

Commenta Ferruccio de Bortoli: “Le organizzazioni di volontariato soffrono più per la mancanza di profili competenti che per la scarsità di risorse. E non è raro che nelle aziende, all’approssimarsi della pensione, si liberino energie di valore che possono essere prestate, con piena soddisfazione dei singoli, ad attività part time nelle imprese sociali”. E l’azienda? “Nell’attività solidale, il bene è reciproco. Lo può essere anche per un’azienda, per renderla più sostenibile e accettabile. Per i suoi dipendenti, che si sentiranno cittadini attivi e consapevoli. E soprattutto per i destinatari finali, le persone che hanno bisogno, che non sono mai l’oggetto e nemmeno lo strumento, anche delle migliori iniziative. Questa è la differenza tra l’egoismo della carità e la bellezza incomparabile del bene fatto bene”.

Ne è convinto anche Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’Asvis, l’associazione per lo sviluppo sostenibile: “Le vie per costruire uno sviluppo sostenibile sono numerose. E anche il volontariato aziendale può contribuire ad accrescere il benessere della società”.

La sintesi è di Patrizia Grieco, adesso presidente di Anima Holding: “Promuovere il volontariato in azienda contribuisce a costruire una società civile viva e attiva e risponde a quella ricerca di senso e di uno scopo che sempre più persone chiedono al lavoro”.

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Il volontariato aziendale migliora sostenibilità e qualità di imprese e associazioni non profit - Antonio Calabrò | Huffington Post

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