La contaminazione reciproca fra imprese e Terzo settore. Se l'economia senza scopo di lucro ha imparato da tempo a rendersi competitiva, cresce un modello di intrapresa economica che scopre, viceversa, l'importanza, persino la convenienza, di perseguire la coesione sociale, dentro e fuori l'azienda, e non solo il profitto. Un fenomeno che da tempo monitora Unioncamere con il rapporto biennale "Coesione e competizione'; realizzato in collaborazione con la fondazione Symbola e Intesa Sanpaolo, la consulenza scientifica del Centro studi Tagliacarne e l'elaborazione statistica dell'istituto Ipsos. Cresce il numero di imprese coesive, quelle cioè che puntano al benessere della comunità territoriale, in primo luogo i lavoratori stessi e i clienti, ma anche in senso più esteso al corretto rapporto con le istituzioni e con le società del Terzo settore. «È un modello che funziona spiega Giuseppe Tripoli, segretario generale di Unioncamere -. Paradossalmente le imprese che non puntano tutto su fatturato, profitto e dividendi, ottengono risultati migliori, più duraturi, anche in questi parametri che non inseguono ossessivamente». Non stiamo parlando di un'idea di impresa altruistica che non esiste ma di un modello che tenendo conto di tutti i fattori in gioco ottimizza le risorse e crea empatia e fidelizzazione intorno a sé. Ci sono tante implicazioni: «Mantenere reti "calde" e simpatetiche con il territorio aumenta il rapporto di fiducia dell'utenza e migliora la qualità di prodotti e servizi, meglio adeguati alle esigenze della comunità. E nei dipendenti sapere che non si stanno occupando solo del profitto del datore di lavoro accresce l'idea di esser parte del progetto d'impresa, a tutto vantaggio della collaborazione sul posto di lavoro e della stessa produttività. La crescita dell'investimento sul welfare aziendale, e dei casi di azionariato diffuso, vanno in questa direzione e producono ottimi risultati». Un po' di dati a supporto. Le imprese coesive sono cresciute negli ultimi rapporti dal 32% del 2018 al 37% del 2020 al 43% del rapporto 2022, appena uscito. Per l'anno in corso si stima un aumento di fatturato per il 55,3% delle imprese coesive a fronte di una media del 42,3%; dell'occupazione per il 34,1% a fronte di una media del tempi difficili, per 112% delle aziende coesive a fronte di un 8% di media. Sono internazionalizzate in misura di poco superiore al 50% mentre la media è del 41. E mostrano maggiore fiducia nel futuro. Per usare una parola diventata di uso comune proprio nel biennio sotto esame si sono dimostrate più resilienti: «Il Covid ha dato un po' una sveglia a tutti. Rendendo evidente l'esigenza di fare rete fra componenti economiche e sociali, profit, non profit e istituzionali, che è il cuore della mission delle Camere di commercio». I dati però consegnano una realtà in chiaroscuro che ancora una volta vede il Sud più indietro per percentuale di imprese coesive, male anche il Lazio, quartultimo. Proprio le regioni con potenzialità turistiche maggiori dimostrano, a fronte del boom del settore, minore capacità di fare rete col territorio e i fruitori. «Però le regioni del Sud sono anche quelle in cui la crescita in percentuale, ancora insufficiente, è stata maggiore. Diciamo conclude Tripoli che l'impresa coesiva, guardando alle prime sei (Trentino-Alto Adige, Valle d'Aosta, Friuli-Venezia Giulia, Molise, Veneto ed Emilia-Romagna) si fa strada soprattutto in regioni che hanno maggiore tradizione civica e fa più fatica in quelle più densamente popolate o in cui è meno presente l'associazionismo e il Terzo settore». Resta però il dato complessivo molto incoraggiante: «Il modello turbo capitalistico, iperliberista, di finanziarizzazione dell'economia si dimostra inadeguato ai tempi nuovi e si afferma un modello più efficace e moderno che punta sul capitale umano. Che, come sostiene Borgomeo, è la vera risorsa anche per il Sud, al di là delle statistiche, che non raccontano di tante realtà all'opera che possono diventare un modello virtuoso di coesione in economia».