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L’attenzione pubblica è ondivaga. Ora, mentre scrivo, a catturarla sono le elezioni italiane, il coronavirus, l’impeachment di Trump. Appena l’altro ieri erano il deludente forum di Davos e la crisi climatica, che oggi sembrano già roba vecchia. Il varo del Manifesto di Assisi per un’economia verde è tutto sommato rimasto sotto traccia, sovrastato dalla cacofonia elettorale.

Eppure, tra una manciata di mesi, con ogni probabilità sarà roba vecchia tutto quanto oggi sta in cima ai nostri pensieri. L’emergenza climatica, invece, continuerà a esistere, anche mentre ci ostineremo a parlare e a preoccuparci d’altro.

Ho cominciato a occuparmi di ambiente negli anni settanta, quando il tema non era di moda e ne parlavano in pochi. Tra quei pochi, lo straordinario Lucio Gambi. Eravamo meno di dieci studenti a seguire, alla Statale di Milano, il suo corso intitolato “Le catastrofi naturali sono prevedibili”. L’affermazione, in apparenza paradossale, sosteneva una tesi a quei tempi dirompente: la cosa che rende “prevedibili” le catastrofi “naturali” è che a causarle è la cecità rapace dell’intervento umano. E quando si è ciechi e rapaci si combinano guai.

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