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Gli abitanti se ne vanno, le comunità si spengono. Un intero pezzo di Paese sembra condannato all’abbandono. Ma nuove iniziative provano a fermare l’emorragia di abitanti e invertire l’esodo. Come racconta chi, proprio da uno di questi piccoli borghi, proviene.

Io la conosco, la voce dell’assenza. È forte soprattutto d’inverno. Quando c’è sempre una finestra che sbatte dentro qualche casa chiusa. È allora che il vento diventa la voce dell’assenza. Delle generazioni passate e delle famiglie partite. Io lo conosco, questo movimento di spopolamento. Lo conosco e un po’ anch’io l’ho alimentato, lasciando molto presto le colline del Sannio, l’amata casa e «i luoghi perfetti dell’infanzia». Lo conosco e lo riconosco, questo progressivo assottigliarsi dei borghi. In questi anni, ho visto diminuire i ragazzi sui muretti di quel corso in cui, adolescente, incontravo gli amici; ho ritrovato, accorpate in un unico edificio, le scuole, che allora contavano almeno tre sezioni; mi è successo di restare senza contanti davanti a uno sportello bancomat ormai murato; e infine, troppe volte, ho sentito di contadini che avevano scelto di lasciare cadere i frutti maturi, «perché non conviene raccoglierli dall’albero». È un processo che coinvolge da tempo i piccoli comuni, soprattutto quelli montani. Eccola, l’Italia che lotta per non sparire. Un piccolo mondo antico che, da un lato, combatte con i trasporti insufficienti, con i servizi carenti, con un’età media sempre più alta e con l’assenza di prospettive professionali; dall’altro, invece, può contare su un fortissimo radicamento e sul richiamo verso una dimensione e una qualità di vita diverse da quelle delle città. Un bisogno sempre più sentito che, alimentato da alcune iniziative, potrebbe tradursi in un’inversione di tendenza. O almeno fermare l’emorragia di abitanti in atto – se pur a fasi alterne – dal Dopoguerra. I numeri sono impietosi: a Roio del Sangro, in provincia di Chieti, o a Marcetelli, nel Rietino, lo spopolamento ha superato l’80 per cento; ma sono ben 115 i borghi che dal 1971 al 2015, calcola l’Istat, hanno perso più della metà degli abitanti: da Castelmagno (in Piemonte) a Bagnoli del Trigno (in provincia di Isernia) passando per l’abruzzese Secinaro; da Ligosullo (in Friuli-Venezia Giulia) a Staiti (in Calabria), a Padru (Sardegna) a Fondachelli, (Sicilia). I giovani partono sempre prima; i genitori, a volte, li seguono e all’improvviso, quelle case diventano troppo grandi. È allora che, a quei palazzi, resta solo la memoria di chi li ha abitati. Nel mio paese per tutti è rimasta la casa di “don Mario” – medico condotto di molte generazioni fa – il palazzo dallo splendido loggiato di cui ora godono solo le rondini; accanto, ci sono le “finestre della torinese”, che solo di rado ho visto aperte. Poco più avanti, “la casa del direttore”, col glicine ormai secco e la famiglia da tempo altrove. Potrei ripercorrere ogni strada e trovare storie, più o meno simili, di partenze. «È lo Stato stesso che è in ritirata da questi territori», ha denunciato il presidente Sergio Mattarella. Lo Stato, con la sua incapacità di custodire l’anima dell’Italia, composta dai suoi ottomila campanili. Uno spettro che si aggira ancor più spaventoso nei paesi feriti dal terremoto. Allora tocca spesso ai sindaci o agli imprenditori provare a trasformare «i limiti, come l’isolamento, in opportunità», sintetizza Massimo Castelli, delegato Anci per i piccoli Comuni. Ci ripenso anch’io ogni volta che torno nel mio paese. Lì, all’interno della biblioteca di famiglia, davanti a quel monte Taburno che nei giorni dell’adolescenza più irrequieta mi appariva come il mio “ermo colle”, pure i libri hanno un’altra voce. Un cartello ricorda che questo è un “paese amico del benessere”, a indicare l’inserimento tra gli itinerari suggeriti a chi è in cerca di natura, silenzio e storia. Sono tratti che connotano, in vario modo, tutti i piccoli paesi. E chissà che, partendo da questi luoghi, non si possa invertire il destino dell’abbandono. Come conferma, peraltro, la risonanza avuta da alcune iniziative: il Wall Street Journal cita, per esempio, le 100mila persone che hanno telefonato al Comune di Sambuca (Agrigento) per informarsi sulle 16 case messe in vendita a un euro; già prima il New York Times aveva registrato con interesse campagne analoghe a Salemi (Trapani) e Gangi (Palermo), mentre il Mit di Boston ha puntato su Vaccarizzo di Montalto (Cosenza). Dal Molise all’Appennino emiliano aumentano le offerte di bonus economici per chi vuol trasferirsi nei borghi che rischiano di scomparire. In alcuni casi, a questi incentivi si sommano quelli per l’avvio di attività imprenditoriali. Come in Grecia il default ha spinto il rientro sulle isole, così in Italia la crisi ha favorito il ritorno all’agricoltura. A Bormida (Liguria), con un affitto mensile di 50 euro, il Comune ha provato ad attrarre famiglie offrendo immobili inutilizzati; a Castel del Giudice, in Molise, si inorgogliscono con la storia di Omar: licenziato a Torino, è stato assunto nel paese di origine in una cooperativa che coltiva mele biologiche e che è stata avviata grazie al crowfunding. Il medesimo meccanismo che ha permesso di trasformare una scuola in disuso in casa di riposo. «Questa è la vera priorità, per sopravvivere», concordano i sindaci. Molto cambierebbe, con il superamento del gap digitale. «In tempi di “smart working”, chiunque potrebbe continuare ad ammirare la montagna da Cerignale», 123 anime nel Piacentino, «ed essere connesso con il mondo», riflette Castelli. Entro il 2021 la società Open Fiber dovrebbe portare internet ad alta velocità in quasi tutto il Paese, comprese le aree più svantaggiate. Un momento, di svolta – si spera – dopo gli interventi previsti dall’Agenda Controesodo dell’Anci, gli accordi con le Poste, la tassazione ridotta per trasferire la residenza dall’estero nel Mezzogiorno; e dopo l’approvazione nel 2017 di una legge anti-spopolamento, che però «per gran parte è rimasta senza decreti attuativi», mi ha spiegato il primo firmatario Ermete Realacci, promotore ora – nelle vesti di presidente della Fondazione Symbola –, con padre Enzo Fortunato del Convento di Assisi, del Manifesto per un’economia a misura d’uomo. Passa attraverso la tutela dei paesaggi rurali: quando sono abbandonati amplificano, tra l’altro, i danni dei cambiamenti climatici. Nel mio di paese, già negli anni Ottanta, si provò ad ampliare le prospettive di sviluppo della comunità, che allora contava 3.500 anime, col richiamo dell’arte, mista alla condivisione delle tradizioni e alla riscoperta delle proprie ricchezze. L’iniziativa fu chiamata Terravecchia, dal nome del primitivo insediamento del X secolo, i cui vicoli furono affrescati. Un critico, Jean Digne, parlò di «Biennale al villaggio». La Domenica del Sole 24Ore titolò Miracolo a Frasso. E nei miei ricordi di bambina, quei giorni, con i turisti nelle strade, gli artisti nelle case e quelle figure che prendevano forma sui muri – il centauro di Omar Galliani, Orfeo ed Euridice di Dante Pelagatti, la tauromachia di François Lamore – coincidono con i «luoghi perfetti dell’infanzia», per citare Salvatore Quasimodo. Una «memoria, che avviene tangibile», tutte le volte che ritorna Terravecchia. E con essa, attraverso gli amministratori di oggi, il sogno e lo sforzo, che fu di mio padre, di creare nuove reti per la sua amata Frasso Telesino. Ai piedi di quei monti, dove, secondo alcuni storici, i sanniti fecero subire ai romani l’onta delle Forche Caudine. Ma questa è un’altra storia.

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L'Italia che lotta per non sparire | 24 Il Magazine - Il Sole 24 Ore

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