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di Carlo Cambi

Per comprendere la forza e la specificità dell’agricoltura e della produzione agroalimentare dell’Umbria bisognerebbe partire dal sesto secolo quando Benedetto intraprese il suo cammino di eremitaggio per arrivare poi a Subiaco e dettare la sua regola. Sta dentro il percorso benedettino e poi francescano il senso profondo del produrre in una terra tanto magnifica quanto mutevole e a tratti ostica. Certo la piana di Orvieto che s’allunga in arie quasi di Maremma è opima e lì i cereali abbondano rivaleggiando con la vigna e l’allevamento è agevolato, ma inerpicandosi lungo la valle del Nera si comprende subito come si debba qui strappare palmo a palmo terra al monte. E del pari è vero che volendo coltivare sulle pendici più alte della culta valle che s’apre dopo varcata la Somma che divide Terni da Spoleto serve una costanza quasi monacale. È vero che nella regola di Benedetto l’ora et labora non è esplicito, ma tutto il dettato del patrono d’Europa (la cui “casa” ancora geme sotto le ferite del terremoto e le vane promesse d’aiuto che dai signori di Bruxelles sono state solo enunciate) è un inno ad operare affinché coltivando il Creato l’uomo si renda degno del dono ricevuto. L’Umbria è nella sua finitezza universale, come universale è l’afflato del Cantico delle creature di San Francesco. Quel laudato sì mi Signore da Assisi si diffonde nel mondo a dirci che “sora acqua è umile et pretiosa e che sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba” sono il nostro impegno quotidiano. È probabilmente questo a rendere del tutto peculiare il lavoro dei campi e la produzione agroalimentare della regione che davvero è il cuore verde d’Italia. E ha una mutevolezza di paesaggio e dunque di coltivo che la fanno diventare il sommario agricolo della penisola.

Basti pensare che verso Città di Castello si stende la piana del tabacco, che al contrario da Pietralunga a Scheggino lungo una selva infinita di roverella e querce, di faggi e carpini ci sono i giacimenti di tartufo, che da Assisi a Spoleto, dal Trasimeno a Bevagna, da Montefalco a Todi verdeggia l’ulivo con il moraiolo a fare la parte del protagonista consentendo ai frantoi umbri di produrre forse il migliore extravergine d’Italia che vuol dire del mondo. La cultura dell’ulivo permea nel profondo la ruralità umbra. Il fulcro di questa cultura è la fascia olivata che da Assisi appunto va fino a Spoleto abbracciando Trevi là dove degnissimo di attenzione è il sedano nero biotipo peculiare che si avvantaggia però dell’abilità di coltivazione (viene infatti interrato) e Campello sul Clitunno alle cui fonti conviene specchiare l’anima!

Qui ci sono le ulivete plurisecolari con le lunette di pietra a proteggere gli alberi e un’olivicoltura eroica da cui è originato anche un comparto agro-industriale di assoluto livello. Sulle sponde del Trasimeno è tornata una coltivazione di specialità, sugli altipiani che guardano il parco dei Sibillini dal Subasio verso il Vettore spiccano prodotti unici di montagna mentre nelle rade pianure si sviluppa una zootecnia modernissima nella conduzione, sostenibile nella formazione. Semmai è da stupirsi per il fatto che l’Umbria, pur avendo una eccezionale produzione di specialità territoriali, ha una relativamente bassa percentuale di prodotti a denominazione. Certo meriterebbero il marchio europeo le cipolle di Cannara, egualmente la roveglia dei Sibillini perfino i tartufi, soprattutto il nero pregiato che in questi boschi abbonda, avrebbe le caratteristiche della certificazione, così come la fagiolina del Trasimeno, uno degli ultimi genotipi di fagiolo vinea, cioè quello che si consumava tra gli italici fin dalla notte dei tempi. Ma probabilmente anche le trote e i gamberi di fiume che si allevano lungo il Nera (in condominio con le Marche che pure detengono una troticoltura di altissimo profilo) avrebbero titolo per un riconoscimento di esclusività. Di certo esclusivo è il contesto naturale. Lungo la val Nerina si incontrano prodotti unici. Si potrebbe partire dai formaggi di pecora di Cascia (l’Umbria condivide con la Toscana la DOP del pecorino) per risalire alle abilità norcine di Preci dove nacque la scuola dei chirurghi per derivazione dalle abilità di produzione del maiale. Di certo il prosciutto di Norcia che oggi si fregia dell’Igp è un’evidenza di questa cultura del maiale (ma anche del cinghiale si dovrebbe aggiungere e in generale della lavorazione delle carni di ungulati) che ha un altro riconoscimento nel salamino alla cacciatora, una DOP che si può dire ubiquitaria in Italia. Ma i salami umbri meriterebbero un loro peculiare riconoscimento così come le vacche Chianine che rientrano nel disciplinare del vitellone bianco di Appennino e gli agnelli umbri che rientrano nel disciplinare degli ovini del centro Italia. Ma di certo la razza Sopravvissana (incrocio di Vissana per Merinos) che sui Sibillini pascola tra Marche e Umbria avrebbe diritto a un suo riconoscimento genetico.

A raccontare la peculiarità dell’agricoltura e della produzione agroalimentare umbra ci sono però altri tre prodotti. Sono frutti della montagna, di una montagna che chiede nuova linfa antropica, che guarda alla ricostruzione, che punta alla qualificazione. Due sono immediato rimando all’areale dei Sibillini: la lenticchia di Castelluccio di Norcia e la patata rossa di Colfiorito; l’altro rimanda alle montagne che guardano al Terminillo e cioè il farro di Monteleone di Spoleto. Tutti e tre questi prodotti hanno nel connubio storia natura un valore aggiunto di altissimo pregio. La lenticchia di Castelluccio di Norcia rimanda allo spettacolo della fioritura che fa di questo altipiano alluvionale una tavolozza del Creato. La patata rossa di Colfiorito si coltiva attorno all’antica Plestia, una sorta di onfalos antropologico nel passaggio tra i due mari e in mezzo alla palude di Colfiorito, una delle zone umide di maggiore interesse di tutta la penisola.
Infine il farro di Monteleone, oltre alla leggenda di San Nicola, evoca la biga etrusca: un monumento unico ancora conteso tra USA e Italia a testimonianza di come l’antica terra degli umbri sia stata il crocevia delle genti che hanno determinato la nostra civiltà!

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