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Redazione

Una DOP ogni trentamila abitanti, lattanti compresi! Potrebbe essere questo lo slogan dell’Italia in dispensa e a inverarlo è un fazzoletto di Paradiso – il riferimento al Gran Paradiso, primo parco nazionale d’Italia che ha compiuto il secolo, è puramente causale – caduto sulla terra all’estremo nord-ovest della penisola: la Valle (guai a non scriverla tutta la parola! le contrazioni consuetudinarie che accorciano il nome in “val” sono blasfeme) d’Aosta. Che è una sorta di sommario sia antropologico che agricolo e geografico di cosa significa produrre mettendo in valore la “fiusis”. Sì, perché qui il concetto non è meramente ecologico, qui il concetto di “naturale” presuppone una lettura del mondo come quella di Eraclito che forse non sospettava che guardando a Nord avrebbe potuto osservare il tetto d’Europa. Qui natura e pensiero si fondono, anzi la prima diviene innesco del secondo. E l’uomo si pensa e si comporta sì come dominus del Creato, ma non disgiunto dal suo ambiente, consapevole di essere egli medesimo natura. Vedremo che se questa è una propensione quasi istintuale, vi fu poi una ragione storica a trasformarla in azione, in gesto produttivo. Le quattro Dop della Valle – non ha Igp pur avendo una dote assai cospicua di altri prodotti tradizionali e una prassi culinaria densissima di spunti originali – hanno un denominatore comune che è anche un costituente della loro unicità: le erbe di montagna. Sia che esse siano le essenze dei prati-pascolo, sia che esse siano la drogatura delle carni, sia che esse siano gli aromi che purificano le stanze di stagionatura, c’è una sorta di “fitomanzia”, di divinazione attraverso le piante come promessa di prosperità, che costituisce il valore aggiunto di questi prodotti che incorporano il naturale come primo ingrediente.

E una ragione storico-culturale c’è. È vero al Valle è di per sé un compendio, o se si preferisce un elogio della natura: venti vette oltre i 4 mila metri, una ventina di valli che si riversano su quella centrale costituita dallo scorrere della Dora Baltea, un’altitudine media di oltre duemila metri, una densità antropica inferiore a 39 per chilometro quadrato con 45 comuni su /4 che non arrivano a mille abitanti, ma a veder bene essa è la massima concretizzazione della regola benedettina. E se San Bernardo di Mentone o di Aosta è colui il quale ha dato luogo agli ospitalieri anticipando di fatto la regola agostiniana, non v’è dubbi che i cenobi monacali abbiano avuto una enorme importanza nella diffusione della sapienza agricola in queste valli. Allo stesso modo, si intuisce come le produzioni aostane siano esse stesse prodotti comunitari: necessari cioè al sostentamento della gente di montagna che ha condensato in quei prodotti la sapienza in forma di esperienza. Che i quattro prodotti Dop della Valle d’Aosta siano l’emblema della capacità di fare per conservare e immagazzinare calorie è fuori di dubbio. Due vengono dai suini, due dalle vacche d’alpeggio e in parte da quegli animali così “intrinsecamente” parenti degli stambecchi: le capre. Immaginarsi il lardo di Arnad come magazzino delle calorie necessarie per coltivare il bosco, per affrontare le erte di montagna, per coltivare segale e raro grano nei solatii lasciati liberi dalla roccia non è certo un esercizio di fantasia. Ma il processo stesso di produzione di questo lardo che porta il nome di un borgo incantato insediato là dove la Valle si fa un po’ pianura, sorvegliato dal santuario della Madonna delle Nevi e da quelle architetture ardite della flora che sono i castagni – all’ombra dei quali vive poco più d’ un migliaio di persone – è manifestazione del fondersi insieme di logos e fusis.

Unico lardo DOP nasce da maiali allevati semibradi e con le castagne a farne magna pars della dieta. Il lardo stagiona, anzi, sarebbe meglio dire che matura in un mix di erbe (tra cui rosmarino e aglio indispensabili) e sale – e in antico doveva essere prodotto assai prezioso poiché il sale era moneta sonante! – nei dolì, cioè “fusti” ricavati dal legno di castagno.

“Tout se tien”, va detto qui dove il patois risuona come lingua romanza e fa ponte a quella cultura Occitana che non conosce confini amministrativi. Vien fatto di dire che i francesi con patois identificano una sorta di dialetto dei contadini, e la Valle risponde che solo dai contadini nascono gioielli come i suoi prodotti Dop! Ciò che vale per il lardo vale per il Jambon de Bosses che potremmo definire il cibo del viandante. La ragione? Si produce a Saint-Rhémy-en-Bosses, estremo lembo verso la Svizzera prima di affrontare il colle de Gran San Bernardo. È un prosciutto profumatissimo che si avvale delle ere di montagna e delle arie che spirano dal Col Citrin, dal Gran San Bernardo, dal Malatrà e dal Serena per una stagionatura almeno annuale. Che fosse il piatto dei viandanti lo confermano i libri dei contes de l'Hospice du Grand-Saint-Bernard, che sul finire del ‘300 annotano questo prosciutto incantevole che nasce oltre i 1600 metri e profuma d’erbe spontanee. Ma senza erbe non ci sarebbe il Formazdo. Un cacio? No, una creatura dei pascoli che deve la sua particolarissima espressione gusto-olfattiva dall’aggiunta di latte caprino alle due mungiture di giornata delle vacche che di solito pascolano in media altura. Il Formazdo che è diffuso in tutte le comunità ha vari gradi di stagionatura che ne mutano il profilo, ma anche varie percentuali di grasso, e poi c’è quello con le erbe che assume il compito d’essere l’ambasciatore dei profumi valdostani. E infine ecco il formaggio più famoso, ricercato e purtroppo imitato d’Europa. sua maestà la Fontina, che più locale di così non si può. Deve il suo nome a un pascolo vicino ad Aosta: il Fontin. Si perde nella notte dei tempi ed è la gioia di ogni gourmet. Dici Fontina – pasta semicotta, forme che stazionano sui 9 chili – e pensi fonduta. Dici Fontina e pensi battaglia des Reines, questa festa itinerante dove le vacche assurgono a ruolo di “regine” e la comunità fa festa assaporando le proprie radici con una fetta di Fontina.

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