Dopo il Coronavirus bisognerà organizzare la ripresa economica del nostro Paese. Ermete Realacci, presidente onorario di Legambiente, indica la via: meno burocrazia e più investimenti lontano dalle grandi città
Diceva Marcel Proust: «Il vero viaggio non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi». Il cammino degli italiani fuori dall’emergenza Covid-19 è ancora fermo all’uscio di casa, ma lo sguardo è già oltre i vetri delle finestre, oltre le vie delle metropoli deserte. La quarantena sta giungendo al termine, ci si immagina come sarà la vita nella Fase 2, tra dubbi e ansie sulla difficile ripresa economica.
«Ripartiremo da ciò che abbiamo sempre avuto, e di cui non ci siamo mai accorti». Ermete Realacci, presidente onorario di Legambiente e della fondazione Symbola, movimento culturale in difesa dell’economia sostenibile e della tutela ambientale, ha le idee chiare: «c’è ancora il nostro territorio intatto, con tutto il suo patrimonio culturale e le infinite potenzialità economiche da sfruttare a pieno: mi riferisco ai piccoli comuni, ai centri rurali e ai borghi storici della penisola, luoghi che rappresentano la nostra storia e nei quali affondano le nostre radici».
Ci sono frasi che si rincorrono nei giorni che passano, diventano mantra, finiscono col perdere di significato: “niente sarà più come prima”, “scopriremo una nuova normalità”, come se l’esperienza del virus avesse aperto gli occhi su problematiche prima invisibili. Realacci gli occhi li ha aperti da un bel po’: una vita politica in difesa dell’ambiente e dei beni culturali tra le fila del magmatico centro-sinistra dei primi anni 2000 e poi come deputato del Partito Democratico: portano la sua firma la legge contro gli ecoreati del 2015 e quella sulla valorizzazione proprio dei piccoli comuni, del 2017 «legge che portavo avanti da vent’anni, senza mai riuscire a farla passare al Senato».
Ha alle spalle vecchie lotte: si parlava già di banda larga nei borghi medievali, di riqualificazione urbana dei piccoli centri e di contrasto all’abuso edilizio quando non c’erano ancora né Greta Thumberg, né il coronavirus e la fobia del contagio. Ora lo sguardo è fisso sul presente: «Vi spiego come e perché la rinascita economica del Paese ripartirà da quei borghi dimenticati».
È da visionari pensare ai piccoli centri come al motore dell’economia nazionale?
«Se lo fosse, potrei chiamare in causa un visionario molto più illustre di me: in occasione della festa annuale dei piccoli comuni, Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca Presidente della Repubblica, definì queste entità territoriali “presidi di civiltà, e parte integrante e costitutiva della nostra identità”. Aggiunse, e mi sembra un punto oggi rilevante, che avrebbero rappresentato “un luogo adatto alle iniziative dei giovani imprenditori”, “un’opportunità da cogliere con l’ausilio dell’informatica e delle nuove tecnologie”. E non potrebbe essere altrimenti. In Italia ci sono ben 5.567 comuni con meno di cinquemila abitanti, un numero che rappresenta il 70% di tutti i comuni e la metà dell’intero territorio nazionale; soprattutto sono ancora la casa di 10 milioni di cittadini e non stiamo parlando solo di pensionati, ma di lavoratori, di gente che sostiene attivamente i settori nevralgici della nostra economia. Forse non tutti sanno che in questi centri si producono il 93% delle merci a marchio DOP (Denominazione di Origine Protetta) e IGP (Indicazione Geografica Protetta) riconosciuti dall’Unione Europea, oltre che il 79% dei vini più pregiati, il 90% dei salumi e dei prodotti ortofrutticoli, l’85% dei prodotti di panetteria e pasticceria e la quasi totalità degli oli extravergine d’oliva. Stiamo parlando dell’intero comparto enogastronomico del Paese, sostenuto ogni giorno da 279mila imprese agricole e da 4 milioni di giovani sotto i quarant’anni, da cui dipende gran parte del sistema della qualità alimentare Made in Italy in Europa. Un giro d’affari di quasi 14 miliardi l’anno».
Un esempio di grande azienda con sede in un piccolo comune?
«Penso alla “Nuova Simonelli”, la Ferrari delle aziende produttrici di macchine da caffè, conosciuta in tutto il mondo visto che esporta il 90% delle sue merci: ha sede a Belforte del Chienti, un paesello di duemila abitanti in provincia di Macerata. È a mio avviso un caso virtuoso di impresa italiana radicata sul territorio che può vantare un ottimo rapporto con i sindacati e con la comunità locale e che contribuisce a promuovere l’italianità all’estero. Mi viene in mente un aneddoto che mi raccontò Nando Ottavi, il presidente del Simonelli Group e tra i promotori di Symbola: di quando alcuni committenti asiatici vennero in visita a Belforte e, osservando tutto intorno le colline marchigiane e le distese di verde, gli chiesero – ma chi li paga i giardinieri?
Per fortuna c’è ancora chi ci ricorda il tesoro che abbiamo tra le mani…»
Eppure nella percezione comune il piccolo borgo è un luogo lontano dalla vita attiva e pulsante del Paese. Quali possono essere gli strumenti per invertire questa tendenza e quali i principali ostacoli?
«La legge sulla valorizzazione dei piccoli comuni, di cui sono stato firmatario, contiene misure volte proprio al rilancio della vita non solo economica, ma anche sociale e culturale di questi luoghi. Prevede la diffusione della banda larga, senza la quale oggi sei tagliato fuori dal mondo, prevede interventi di manutenzione dei centri storici e del territorio volti alla prevenzione del rischio idrogeologico, la riqualificazione urbana, la messa in sicurezza antisismica delle abitazioni, punto a mio avviso cruciale visto che parliamo di paesini oggi spopolati anche per paura dei frequenti terremoti nell’Italia centrale. Il nemico principale è sempre la troppa burocrazia, che tiene bloccate le risorse necessarie a far ripartire queste realtà. Prendiamo l’esempio proprio della messa in sicurezza delle case in funzione antisismica: è una pratica che, oltre a salvaguardare la vita delle persone, permette di far aumentare notevolmente il valore dell’abitazione, tuttavia ha un costo elevato e attivare gli incentivi pensati dalla legge è difficile se non si dispone di un reddito adeguato, senza il quale non si può scaricare il credito di imposta. Per non parlare delle macerie nei paesi colpiti dal terremoto: sono ancora lì, e sapete perché? Perché esistono norme assurde che impongono l’autorizzazione di tutti i proprietari delle case per la rimozione dei detriti. Ma molte di queste case sono abbandonate da anni e dei proprietari non si sa più nulla. Sono esempi che riporto per far capire quanto sia necessario e urgente sburocratizzare il sistema per sbloccare, ad esempio, i 12 miliardi stanziati nelle aree terremotate e rimasti ancora inutilizzati.
«Un successo importante però questa legge lo ha ottenuto: siamo riusciti a mantenere alcuni servizi essenziali nei piccoli borghi, anche destinandoli a un uso diverso da quello dei grandi centri urbani: mi riferisco ai presidi sanitari e agli uffici postali. Non era un risultato scontato»
Quanto pensa che l’esperienza del coronavirus possa spingere gli italiani a ripopolare i piccoli comuni? È d’accordo con quanto l’architetto Stefano Boeri ha affermato in una recente intervista a La Repubblica, in cui ha parlato di riscoperta di spazi aperti e incontaminati?
«Conosco molto bene Stefano e ho avuto modo di parlare con lui dopo quell'intervista. In concreto non credo a un ritorno di massa alla vita agreste, parliamo di processi non meccanici, che si realizzano in tempi lunghi. La città svolgerà sempre un ruolo fondamentale, è la culla della cultura italiana. Condivido però la sua visione e l’esigenza di creare un modello di sviluppo più in armonia con la natura, rispettoso dell’ambiente per una serie di ragioni fondamentali che sono ormai sotto gli occhi di tutti. C’è una forte sinergia tra inquinamento e virus, la vita urbana e gli spazi delle città devono essere ripensati per migliorare le condizioni di salute di tutti. Ma è anche una questione di soldi: bisogna mettersi in testa che investire in favore dell’ambiente è una scelta vantaggiosa anche da un punto di vista economico. Lo scontro sul nucleare ha fatto scuola: Enel, che a suo tempo scelse di puntare sulle energie rinnovabili, impegnandosi ad azzerare le emissioni di Co2 entro il 2050, è oggi la più importante azienda elettrica privata del mondo. Ai tempi del dibattito ideologico pro o contro nucleare, i filonucleari guardavano con invidia all’azienda francese EDF (Electricitè de France) che scelse un percorso differente. Oggi nessun francese raziocinante rifiuterebbe di scambiare EDF con Enel».
In questo senso i borghi montani e le campagne offrono naturalmente ciò che le città dovranno inventarsi?
«Certo, e quello che manca ai piccoli comuni è la vitalità e la capacità di aggregazione sociale offerta dalle città. Resteranno sempre due mondi diversi, ma sono convinto che la distanza possa e debba essere colmata. Ne trarremo tutti vantaggio quando si tratterà di ripartire.
Come diceva l’architetto polacco Daniel Libeskind: “nei borghi italiani c’è il dna dell’umanità”. Cominciamo a guardarlo con occhi diversi, e ci ritroveremo tra le mani un tesoro inestimabile.