Molte organizzazioni culturali e creative non sono facilmente identificabili tramite le classificazioni statistiche ufficiali. La ragione è principalmente una: si tratta di organizzazioni che operano sempre più in ambiti ibridi o emergenti, per cui non esiste un corrispondente codice di attività economica o non ne esiste uno univoco. Due studi recenti, uno del Regno Unito e uno della Francia, offrono approcci metodologici complementari per affrontare questa sfida.
Per quanto riguarda il caso del Regno Unito, il Creative Industries Policy and Evidence Centre (PEC) - centro di ricerca indipendente dedicato a fornire evidenze e raccomandazioni di policy per sostenere la crescita delle industrie creative nel Regno Unito -, in collaborazione con Nesta, ha affrontato il problema di definire e misurare le imprese “createch” – organizzazioni che usano la tecnologia per innovare in contesti creativi[1]. Il punto di partenza è la difficoltà di applicare classificazioni tradizionali come quelle dell’Office for National Statistics (ONF) alle imprese createch, spesso non adeguatamente descritte nei registri ufficiali come l’Inter-Departmental Business Register (IDBR) ma dal grande potenziale innovativo. Secondo lo studio, createch nasce quando una tecnologia viene utilizzata per innovare in un contesto creativo. Un esempio concreto è quello di uno studio cinematografico che decide di aggiornare le proprie telecamere per realizzare riprese in 3D, con l’obiettivo di produrre un nuovo tipo di film.
Per colmare questa lacuna, lo studio utilizza CrunchBase[2], una directory collaborativa di aziende tecnologiche, applicando una pipeline di apprendimento automatico per analizzare descrizioni testuali, tag, profili dei fondatori e dati di finanziamento. Il processo di selezione delle imprese createch avviene in due fasi: prima si identificano le imprese creative tramite codici industriali[3] e tag; poi, si filtrano quelle con concrete attività tecnologiche creative, attraverso un’analisi semantica dei testi che ha permesso di escludere segmenti meno pertinenti, come aziende solo tecnologiche. In questo modo, i ricercatori sono riusciti a individuare circa 2.800 aziende britanniche createch, pari all’8% del campione totale analizzato.

Questo approccio presenta diversi punti di forza. Innanzitutto, consente di superare i limiti dei registri ufficiali, offrendo una rappresentazione più dinamica e realistica di settori in rapida evoluzione come la createch. L’impiego di fonti aggiornate e collaborative, come CrunchBase, permette di cogliere in tempo reale lo sviluppo dell’economia creativa e tecnologica, fornendo così dati preziosi per l’elaborazione di politiche pubbliche più efficaci, soprattutto in ambiti dove le statistiche ufficiali risultano carenti o obsolete. Un ulteriore vantaggio è la possibilità di adattare questo metodo ad altri contesti geografici, facendo ricorso a questo stesso database (che include anche dati di imprese basate in Italia) o altri potenzialmente equivalenti a livello locale o nazionale, o di estenderlo a settori affini e in trasformazione – come l’edu-tech, l’health-tech o il gaming – che, pur non riconducibili alle categorie tradizionali, stanno assumendo un peso crescente nell’economia contemporanea.
Tra i limiti, va segnalato che l’analisi si basa su descrizioni aziendali testuali, escludendo quindi le imprese con informazioni insufficienti. Questo può generare una lieve distorsione del campione, a favore di realtà più consolidate e strutturate.
In Francia, l’Insee e il Dipartimento Studi del Ministero della Cultura (DEPS) hanno affrontato un problema simile rispetto alle associazioni culturali. Molte di queste non risultano nei registri delle imprese (come SIRENE)[4] e il Répertoire National des Associations (RNA) è parziale e spesso obsoleto. Per questo, a partire dal 2014, è stata avviata un’indagine nazionale su un campione rappresentativo di oltre 19.000 associazioni, su una popolazione complessiva di 1,3 milioni[5].
Oltre alla classificazione predefinita delle attività (ove esistente), il questionario include tre domande aperte (due sullo scopo e una sul campo di attività). Lo studio dà priorità alle risposte alle tre domande aperte e alla ragione sociale dell’associazione per un’identificazione più fine dell’attività effettivamente svolta. Questi quattro testi hanno così costituito la base per l’individuazione di un centinaio di parole (o espressioni) chiave legate alle attività culturali. Tuttavia, una parola può apparire isolata nelle risposte di un’associazione, il cui lessico complessivo indica che essa non è attiva nel settore culturale. Per questo motivo, vengono conteggiate anche le occorrenze di parole chiave riferite ad altri ambiti, in particolare alle attività ricreative, al fine di escludere tali casi. Ad esempio, un’associazione dedicata ai giochi di carte e da tavolo non può essere considerata culturale anche se compare una sola volta il termine “danza”, mentre il termine “giochi” è menzionato più volte. In altre parole, è stato messo a punto un sistema basato su parole chiave e frequenze relative che consente di distinguere le associazioni culturali da quelle affini ma non centrali (es. tempo libero).

L’esame dettagliato delle risposte alle tre domande aperte e della ragione sociale ha permesso così di arrivare a un campione di 3.810 osservazioni sulle 3.882 identificate con la nomenclatura Insee - ossia 680 associazioni sono state riclassificate e incluse nel campo culturale, mentre 752 sono state escluse. Grazie al gioco delle ponderazioni, il numero totale di associazioni culturali individuate nello studio è pari a 289.000 (23% del totale), contro le 284.000 risultanti dalla classificazione dell’Insee. Il metodo tiene conto della natura multidisciplinare del settore e della possibilità che un’etichetta formale non rifletta l’attività reale, permettendo allo stesso tempo di raffinare la stima del numero e delle caratteristiche delle associazioni culturali, superando i limiti dei repertori amministrativi. Inoltre, consente di mappare le attività culturali svolte da associazioni a prevalente finalità sociale o che abbracciano più ambiti, senza che nessuno tra questi prevalga – secondo i risultati dell’analisi testuale - come è il caso delle case dei giovani e della cultura (MJC6) e i centri e foyer socio-culturali - automaticamente inseriti nel settore definito come pluridisciplinare.. Il metodo può essere adattato ad altri settori del terzo settore (es. sport, ambiente) o ad altri Paesi che raccolgono dati tramite indagini a domande aperte o censimenti associativi. È particolarmente utile in contesti dove il settore culturale si sovrappone con ambiti civici o sociali.
Rendere visibile l’“economia sommersa” della cultura e della creatività è una sfida metodologica sempre più rilevante per politiche pubbliche informate e inclusive. La lezione da trarre è che, per leggere la cultura di oggi, servono strumenti nuovi – capaci di andare oltre i codici ATECO e di dare voce alle realtà più ibride e meno visibili.
In questo senso, emergono alcuni trend comuni che offrono spunti metodologici utili: il superamento delle classificazioni ufficiali, considerate troppo rigide; l’impiego di dati qualitativi e testuali per cogliere la complessità delle identità organizzative; l’utilizzo di tecnologie come l’analisi semantica e il machine learning per trattare grandi volumi di dati non strutturati; e infine, un approccio ibrido, flessibile e adattabile, in grado di integrare fonti diverse. Questi elementi rappresentano una base preziosa per sviluppare strumenti analitici nonché politiche più aderenti alla realtà dinamica del settore culturale e creativo.

