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di Domenico Sturabotti e Tiziano Rugi   

Come evolverà il settore delle rinnovabili da qui al 2030? Che peso avranno le rinnovabili nel mix energetico? Assisteremo ad uno sviluppo lineare oppure dobbiamo attenderci una crescita esponenziale? Come si riadatteranno le industrie dei combustibili fossili?

La transizione energetica è un processo ampio, tocca vari ambiti della società e passa dallo sviluppo delle fonti rinnovabili e l’elettrificazione dei trasporti. C’è una tecnologia abilitante alla base di questi due cambiamenti epocali ed è quella degli accumuli, legata a sua volta al tema, tutto tecnologico, della “non programmabilità” delle fonti rinnovabili. Perciò, più rinnovabili significa più sistemi di accumulo. Più sistemi di accumulo, per essere green, hanno bisogno di essere caricati da energia prodotta da fonti rinnovabili. Sono due facce della stessa medaglia della transizione energetica.

In che direzione sta andando la ricerca degli accumuli per sostenere il nuovo quadro di sviluppo delle fonti rinnovabili?

Dal punto di vista tecnologico, i sistemi di accumulo necessari per le fonti di energia rinnovabile sono meno problematici rispetto alle esigenze di una batteria per automobile elettrica, che deve essere molto più performante. Mentre per le automobili, per ora, la batteria al litio è imprescindibile, nel campo delle fonti rinnovabili, è possibile trovare altre soluzioni che non usino il litio.

Non tanto per i problemi legati alla disponibilità di questo metallo, visto che non è critico (sebbene la disponibilità vada costantemente monitorata), il prezzo sta scendendo e comunque non serve più dell’1% per produrre una batteria: per accumuli domestici è possibile utilizzare altre tecnologie che ad oggi non sono abbastanza performanti per un’automobile, ma adatte per immagazzinare l’energia prodotta dalle fonti rinnovabili.

Tra le più promettenti tecnologie alternative ci sono le batterie al sodio-ione: hanno un funzionamento analogo a quelle al litio, ma lo sostituiscono con un materiale più economico, più facile da reperire e la cui estrazione può essere più sostenibile a livello ambientale. Le batterie al sodio sono già commerciabili e la loro adozione contribuirà a fare scendere il prezzo del litio per le batterie delle automobili, mettendo al tempo stesso in sicurezza la catena di approvvigionamento per quelle domestiche. Altri elementi con cui la ricerca si sta orientando per cercare di eliminare del tutto gli elementi critici sono il magnesio, il potassio e lo zolfo: ma ancora non sono stati raggiunti risultati tali da avere un effetto dirompente.

Per gestire le esigenze dei campi fotovoltaici e dei parchi eolici, quali sono le batterie più adatte? Anche in questo caso è possibile andare oltre al litio?

Per i grandi impianti eolici e fotovoltaici c’è da tenere conto del diverso fabbisogno energetico e di potenza rispetto al settore dei trasporti. Se le automobili hanno bisogno di celle con maggiore potenza, con le fonti rinnovabili sono necessarie celle ad alta energia per immagazzinare la sovrapproduzione elettrica. La cella di una batteria da utilizzare per un impianto di energia rinnovabile non subisce uno stress paragonabile a quella di un’automobile, con continue frenate e accelerate, quindi è possibile fargli fare un numero molto più alto di cicli.

Oltretutto, non c’è neppure il problema di ridurre la massa della batteria, una delle principali preoccupazioni nella ricerca automobilistica. L’obiettivo principale, quindi, non è tanto sviluppare batterie più potenti, ma ridurre il costo kW/h per ciclo, con celle standardizzate con materiali che presentano legami chimici molto forti e che permettano di fare milioni di cicli e perdano la loro capacità solo dopo 10-15 anni.

Nei campi fotovoltaici di estese dimensioni, si possono usare anche altri sistemi di accumulo come le batterie redox-flow. Le batterie di flusso redox al vanadio sono in fase liquida e quindi la capacità di accumulo totale della batteria dipende dalla dimensione delle due vasche separate dove viene stoccato l’elettrolita. Le vasche sono collegate a un reattore in cui gli elettroni possono essere scambiati. Aggiungere ulteriori celle elettrochimiche e aumentare la quantità di soluzione elettrolitica permette di accrescere rispettivamente la capacità energetica e di stoccaggio della batteria di flusso redox al vanadio.

Sono sistemi ad alta densità di energia, capaci di mantenere oltre l’80% dell’efficienza anche quando sono poco carichi e il 100% della capacità originale dopo infiniti cicli, hanno una lunga durata e richiedono poca manutenzione. Sono dunque molto adatti da affiancare alle fonti rinnovabili. Sono già in fase di commercializzazione, sebbene la ricerca prosegua per ridurne i costi e hanno un unico problema: non sarebbe avveduto installarle in impianti fotovoltaici costruiti in zone sismiche, altrimenti in presenza di un terremoto i sali di vanadio in acido solforico, nel caso travasassero dalle vasche, potrebbero inquinare la falda acquifera.

Nei parchi eolici, a differenza dei campi fotovoltaici, ci sono momenti di picco molto più elevati quando arriva la folata di vento rispetto al picco di sole intorno a mezzogiorno, quindi servono batterie con maggiore potenza. Al tempo stesso restano le esigenze di accumulo di energia: quindi nel settore eolico la ricerca è orientata soprattutto all’ibridazione, accoppiando un sistema ad alta energia con un sistema ad alta potenza.

Nei sistemi di accumulo per le rinnovabili possono entrare in gioco non solo i sistemi di accumulo elettrochimici come le batterie, ma altri sistemi meccanici, idrici, volani o storage nella sabbia. Gli accumuli elettrochimici sono i più semplici da gestire, ma ad esempio sistemi di pompaggio idroelettrici si integrano benissimo con le rinnovabili, in particolare con l’eolico. Sono basati fondamentalmente su bacini d’acqua sopraelevati. Quando c’è bisogno di energia, l’acqua viene trasportata a valle e trasformata in elettricità dalle turbine. Quando, invece, i parchi eolici producono un eccesso di elettricità l’energia viene utilizzata per pompare nuovamente l’acqua verso il bacino, che si “ricarica”, funzionando come una batteria meccanica gigante.

Naturalmente, è necessario avere a disposizione abbondanza d’acqua e un terreno sopraelevato e quindi sono molto comuni nelle regioni montane. Proprio per la grande disponibilità di possibilità, siamo in grado di “confezionare” su misura la tipologia di accumulo adatta a una determinata fonte di energia rinnovabile o a determinate caratteristiche del territorio.

Quali sono le possibili convergenze tra il settore degli accumuli e quello delle fonti rinnovabili?

Un’altra tecnologia interessante sono le cosiddette batterie ZEBRA (Zero Emission Battery Research Activities): grazie all’elevata densità di energia e potenza, costituiscono una delle migliori soluzioni alla moderna richiesta di accumulo energetico per l’uso stazionario. Questi sistemi sono costituiti da celle nickel-sodio cloruro, operanti ad elevate temperature (circa 270-350 °C), racchiuse in un contenitore termico ed utilizzano un tubo ceramico come elettrolita solido. L’integrazione con le fonti rinnovabili sarebbe possibile perché l’energia prodotta in eccesso dagli impianti fotovoltaici o eolici potrebbe essere usata per mantenere la temperatura ai livelli richiesti dalla batteria.

L’eccesso di energia proveniente da fonti rinnovabili potrebbe essere immagazzinato anche nell’idrogeno, ma per il momento si tratta di un sistema di accumulo con un’efficienza sotto il 30% e non conviene, senza contare che è un vettore e dunque un combustibile e perciò è più pericoloso di una batteria da usare in ambito automotive o domestico.

Nasceranno nuove filiere su stimolo delle nuove tecnologie?

Le batterie devono essere sostenibili non solo dal punto di vista energetico, ma lungo tutto il ciclo di vita. Dai materiali di partenza, che non possono essere metalli tossici o difficili da ottenere, al fine vita, ovvero batterie completamente riciclabili, come del resto prevedono le norme contenute nel recente regolamento Batterie dell’Unione europea, in cui sono individuate quantità minime (e crescenti nel tempo) di materiale riciclato all’interno delle nuove batterie prodotte.

Con le tradizionali batterie piombo acido siamo arrivati a riciclare il 100% e qualsiasi batteria di automobile a motore endotermico oggi è costruita con piombo riciclato. Tuttavia, dovrà svilupparsi in parallelo un sistema industriale di riciclo, per gestire l’enorme mole di batterie litio-ferro-fosfato del futuro, e purtroppo siamo indietro a livello europeo. In Italia ci sono progetti pilota per recuperare i preziosi materiali all’interno delle batterie, ma da qui al 2030, oltre all’aspetto tecnologico, già in parte superato, bisognerà garantire un sistema su scala industriale per gestire l’enorme mole di batterie esauste a cui andremo incontro quando sarà cominciata la vera e propria elettrificazione dei trasporti.

In questa fase di transizione un’altra opportunità particolarmente interessante da accostare alle fonti di energia rinnovabile è il second life delle batterie esauste. Quando le batterie sono circa all’80% della loro capacità, non possono più essere utilizzate nell’ambito automotive, ma possono ancora trovare una nuova vita nel campo delle rinnovabili, dove è essenziale avere accumuli di lunga durata ma non sono così importanti gli aspetti legati alla potenza.

Mettendo insieme gruppi di batterie ricondizionate è possibile stoccare rapidamente energia proveniente dagli impianti di energia rinnovabile, con il beneficio aggiunto di contribuire a stabilizzare la rete, rispondere agli sbalzi di potenza e diminuire o evitare del tutto gli eventi di riduzione di carico e blackout. Tuttavia, secondo la mia opinione, se il riciclo diventerà molto efficiente, sarà più conveniente avere batterie nuove fatte con materiale di riciclo, piuttosto che pacchi di batterie ricondizionate.

Come cambieranno le tecnologie legate alle rinnovabili dal punto di vista del design e delle soluzioni. Vede una maggiore integrazione con prodotti come le batterie?

Si è parlato spesso di tettucci fotovoltaici installati sulle automobili: difficilmente, però, si potrebbe andare oltre a usare quell’energia per l’elettronica dell’auto, ma di sicuro non sarebbe sufficiente per ricaricare il veicolo e anche in questo caso non siamo di fronte a un investimento funzionale nel rapporto costi-benefici ottenuti.

Quali nuove professionalità vede emergere nel settore? Quali saranno le figure professionali chiave? E che diffusione stanno avendo e quale avranno nel mercato del lavoro da qui al 2030?

Serviranno moltissime persone per lavorare nell’ambito delle batterie. Il mercato europeo ha un potenziale di 250 miliardi di euro l’anno e ha bisogno di un numero crescente di professionalità che stimiamo intorno agli 800.000 posti di lavoro nei prossimi anni per lavorare lungo tutta la filiera delle batterie. Dobbiamo formare le persone che attualmente lavorano nel settore e formarne di nuove.

Si tratta di un ambito multidisciplinare estremamente ampio: servono chimici, esperti di materiali, chi si occupa di sicurezza, di produzione, elettronica, digitalizzazione, economia, design di cella, produzione di macchinari per il riciclo. Una grande sfida per l’Italia sarà quella di coordinare la formazione con le altre università europee, creando percorsi ad hoc per attirare l'attenzione dei giovani sui nuovi corsi e mettere in dialogo tra loro i vari ambiti professionali legati alle batterie.

Da qui al 2030 quali di queste barriere allo sviluppo delle rinnovabili la preoccupano di più e perché?

Il rischio maggiore, vista l’interdipendenza tra batterie e fonti di energia rinnovabile è rallentare la transizione energetica perché non ci sono batterie a sufficienza. L’Unione europea rappresenta oggi solo il 7% del mercato mondiale di batterie agli ioni di litio (nel 2020 la produzione ha raggiunto quota 44 GWh), mentre Pechino ha attualmente una capacità di produzione annua di 465 GWh, pari al 78% del totale mondiale. La Commissione europea stima che l’Ue avrà bisogno tra i 400 e i 500 GWh di capacità di batterie entro il 2025 e nel caso le imprese attueranno con successo i progetti annunciati, la produzione europea arriverà nel 2030 a essere tra i 700 e i 1200 GWh.

Non sarà semplice. Le stesse stime della Commissione prevedono a partire dal 2030 il rischio di penuria dei materiali per le batterie per l’effetto combinato dell’aumento della domanda mondiale associata all’elettrificazione dei trasporti e dell’offerta interna di materie prime carente (da qui l’importanza dell’economia circolare). Gli investimenti dell’Europa e dei privati per creare un ecosistema favorevole alla produzione di celle necessarie per i pacchi batteria, finora assenti, visto che le celle venivano acquistate dalla Cina e assemblate in Europa, adesso ci sono. Su tutto il territorio dell’Unione europea più il Regno Unito sono previste 33 gigafactory operative entro il 2035.

Restano però barriere di varia natura: intanto un po’ ovunque si registrano i primi intoppi e ritardi, compresa l’Italia dove il progetto della gigafactory di Italvolt sembra destinato a bloccarsi e quella di Stellantis non sarà pronta prima del 2026. Un altro serio ostacolo per il sistema europeo arriva dagli Stati Uniti. Gli Usa hanno investito parecchio nelle fonti rinnovabili e nelle batterie con l’Inflation Reduction Act. Il problema è che questo pacchetto di misure contiene incentivi e crediti di imposta ai produttori di batterie al litio con sede negli Stati Uniti o nei partner commerciali Canada e Messico e questo potrebbero spingere multinazionali dell’auto e produttori europei a delocalizzare negli Usa perché più conveniente.

Un’altra barriera riguarda la necessità di adeguare la rete elettrica in accostamento con l’utilizzo diffuso degli accumuli. Innanzitutto è più conveniente avere piccole batterie interne in ogni abitazione: un sistema in cui produco la mia energia, la accumulo e la vendo o acquisto a seconda del bisogno è migliore perché più produciamo e accumuliamo l’energia vicino alla fonte, minori sono le perdite di efficienza e si riducono gli sprechi. Servirebbe però anche un piano europeo a livello macro, per rendere il territorio dell’Unione europea un’unica grande centrale elettrica da fonti rinnovabili, integrando la produzione eolica delle nazioni del Nord con il fotovoltaico delle nazioni del Sud, in modo da non perdere l’energia in eccesso prodotta in alcuni momenti dell’anno: ma per farlo è indispensabile sviluppare le infrastrutture su cui viaggia l’energia. Sarebbe in ogni caso più sostenibile e più efficiente rispetto a continuare a usare il metano, la cui rete è peraltro caratterizzata da numerose perdite.

In questa riorganizzazione del sistema che ruolo può giocare l’Italia, soprattutto in quali segmenti può giocare la sua partita?

L’Italia può avere un ruolo importante nella ricerca e nell’innovazione, dove abbiamo raggiunto risultati eccellenti. Il Politecnico di Torino. è l'unico partner italiano del progetto europeo Battery 2030+, una ricerca finanziata dall'Ue per sviluppare batterie di nuova generazione. L’obiettivo è quello di rendere il nostro continente sempre più indipendente dalle tecnologie straniere, soprattutto asiatiche. Stiamo studiando batterie di ogni tecnologia e forma, con materiali che si autoriparano, che hanno sensori all'interno delle celle per migliorare prestazioni e sicurezza.

Dal punto di vista industriale, l’Italia ha aziende importanti che lavorano nel settore delle batterie. Cito, ad esempio, Manz, un’azienda che si occupa di produzione di macchine per la realizzazione di celle per i pacchi batterie, oppure Comau, Sovema. Abbiamo diverse realtà nel riciclo delle batterie. Quello che manca all’Italia, invece, è la produzione vera e propria della batteria e aziende chimiche per i materiali da mettere all’interno delle batterie. Attualmente in Italia lo stabilimento di Teverola, in provincia di Caserta, della società Faam, ha avviato un progetto per la produzione e il riciclo delle batterie agli ioni di litio. E poi, naturalmente, c’è Stellantis: la gigafactory a Termoli si occuperà della realizzazione dei pacchi batteria, di riciclo dei materiali e testing, ma bisognerà attendere almeno il 2026.

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