I dati della green economy italiana sono incontrovertibili: un segno più davanti a tutti gli indicatori, a conferma che l'aspetto ambientale ormai è entrato sotto pelle nella struttura economica nazionale e fa parte del Dna dell'intero (o quasi) sistema produttivo. Lo conferma un'analisi pubblicata da poco su Research Pone, dall'Università di Oxford e dalla Smith School of Enterprise and the Environment: l'Italia è nella top-4, con Cina, Usa e Regno Unito, delle nazioni in grado di affermarsi nei prossimi decenni nella transizione globale verso un'economia verde. L'Italia è al secondo posto fra i Paesi in grado di esportare «i prodotti più verdi e complessi avendo una capacità di produzione green altamente avanzata che potrebbe sfruttare con l'aumento della domanda globale», affermano gli analisti che hanno realizzato il primo database al mondo di prodotti green riconosciuti a livello internazionale. Ed è addirittura prima nella classifica del potenziale per diventare competitiva a livello globale in prodotti ancora più green e tecnologicamente sofisticati. Il recente Rapporto Greenitaly di Fondazione Symbola e Unioncamere fotografa nel dettaglio i numeri che hanno portato l'Italia a essere tra i Paesi guida dell'economia circolare europea, una posizione di vantaggio che dobbiamo sfruttare alla luce del Green New Deal proposto dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e in prospettiva del Recovery Fund per far fronte alle devastazioni causate dalla pandemia. Detto questo, però, e riconosciuti i giusti meriti a tutti gli attori della green economy, dagli imprenditori ai lavoratori ai cittadini che sempre più si orientano verso prodotti e servizi verdi, resta una sensazione di incompiuto, di mancanza del trasferimento nella vita di tutti i giorni di tutto il buon lavoro fin qui svolto. Se no non si spiegherebbe l'ennesima condanna dell'Italia arrivata la scorsa settimana da parte della Corte europea di Giustizia per l'aria inquinata e per aver oltrepassato i limiti delle polveri sottili Pano. C'è ancora da fare.
Paolo Virtuani | Corriere della Sera