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Non basta celebrare. L'espressione made in Italy ci riempie di orgoglio, ma va riempita di nuovi contenuti per aumentare la loro capacità di stare sui mercati di DARIO DI VICO Nell'anno di grazia 2024 i riferimenti enfatici al made in Italy e alla sue taumaturgiche virtù sanno un po' di retorica. Per carità, nessuno mette in discussione la straordinaria spinta propulsiva delle esportazioni italiane che sono state una delle risposte che il sistemaha saputo dare alla Grande Crisi del 2008-2015. E nessuno può ovviamente negare che l'apparato produttivo italiano goda di una posizione di primo rango internazionale nell'industria di quello che il Centro Studi Confindustria chiamava «il bello e benfatto». Insomma masochisti non ce ne sono e francamente non ne abbiamo bisogno, ma è anche vero che quell'espressione (made in Italy) ha bisogno di essere riempita di nuovo di contenuti, di essere aggiornata, di essere resa competitiva rispetto a quello che potremmo chiamare lo spirito del tempo o, più prosaicamente, rispetto ai mutamenti dei mercati. Davanti a quest'esigenza, che definiremmo anti-retorica, il governo Meloni e il Mimit di Adolfo Urso hanno deciso, da tempo, di fare un'operazione di segno opposto. Addirittura una rivisitazione pop del concetto di made in Italy. Il disegno di legge ad hoc approvato in dicembre troverà una sua espressione - e forse la più lineare proprio oggi 15 aprile con la giornata del made in Italy, un contenitore inventato per raggruppare tutta una serie di iniziative più o meno celebra live. Si è puntato sulla giornata di oggi perché coincide con la nascita di Leonardo da Vinci, scelto come antesignano del bello e benfatto e, per chiudere il cerchio, è stato adottato come logo delle manifestazioni il suo uomo vitruviano. La Lega Calcio di serie A ha dedicato la giornata di ieri alla promozione del brand e sono previste sul territorio, secondo il ministero, circa 200 manifestazioni, le più varie. Di carattere culturale, sociale, scientifico, sportivo e storico. Obiettivo: «tramandare i valori a quelli che saranno gli imprenditori del domani sensibilizzando l'opinione pubblica sul valore delle opere dell'ingegno e dei prodotti italiani». Ci sarà dunque, oltre a un discreto numero di talk sparsi per il Paese, un francobollo, una mostra, l'inaugurazione a Torino di una casa del made in Italy, premi ad abundantiam e altre iniziative. Del resto la giornata del made in Italy è dentro uno schema legislativo che fa un'operazione «museale», premia i «maestri» e poi distribuisce a pioggia incentivi-mancia a svariati settori della produzione italiana con l'idea (malsana) che per questa via diverranno più competitivi e sapranno sostenere le sfide della concorrenza. E invece ci si limiterà a fotografare l'esistente, a benedirlo con le scelte dell'amministrazione, a circondarlo di consenso politico dall'alto e a fare anche qualche piccola operazione di carattere elettorale. Ma la domanda è proprio questa: abbiamo proprio bisogno di celebrare o invece è altra (e difficile) l'operazione da fare? Secondo l'economista Innocenzo Cipolletta l'espressione made in Italy è molto usata da noi, ma all'estero non ha un valore così eccezionale. Indica certo la provenienza delle merci da un determinato Paese, ma è un concetto valido anche per la Francia, la Germania o altri sistemi. «Mi pare onestamente più una manifestazione di orgoglio nazionalistico che altro. Si promuove l'Italia quando invece ai fini commerciali avrebbe più senso concentrarsi sui singoli settori». Insomma made in Italy non è un brand che può essere usato in maniera onnicomprensiva. Una cintura di cuoio non può essere promossa nello stesso modo dell'intelligenza artificiale, sostiene Cipolletta. «Lo stesso cibo non è venduto nei fatti come made in Italy ma come singoli prodotti d'eccellenza». Sarebbero più utili specifiche campagne mirate piuttosto che una promozione indifferenziata. 11 secondo punto riguarda le politiche per l'innovazione o meglio, vista la nostra congenita difficoltà ad entrare nella ricerca di base, l'applicazione dell'innovazione. «Non solo quella delle start up, ma quella che può essere sfruttata nei settori maturi che la impiegano effettivamente e partono già da quote di mercato più che significative», sottolinea Cipolletta. Per Stefano Micelli, docente di International management a Ca' Foscari, il made in Italy merita una propria agenda dei lavori. Che trova un punto-chiave «nella capacità di prendere la passione del prodotto d'eccellenza, la cultura dei territori e saldarla alle tecnologie emergenti». Non solo e solo tech («non siamo tedeschi»), ma mettere in equilibrio l'idea di lavoro che c'è dietro al bello e benfatto con un percorso di innovazione. Su questo punto non c'è purtroppo un dibattito pubblico in Italia, ci sono invece interessanti esperienze aziendali che però (purtroppo) stentano a fare sistema. Domani si apre a Milano quella che forse è la principale manifestazione del made in Italy, il Salone del Mobile e vedremo se da questa edizione, che si presenta all'altezza di quelle che l'hanno preceduta, scaturiranno risposte all'altezza. Micelli, intanto, invita ad allargare la visuale all'inverno demografico e alla difficoltà di ricreare quelle competenze di lavoro che sono la pre-condizione dell'industria italiana di successo. E che questa percezione sulla difficoltà di sostituire forza lavoro «distintiva» coni giovani e nel contempo seguire l'evoluzione tecnologia delle professioni del made in Italy è al centro, ad esempio, del rapporto sul design presentato nei giorni scorsi da Symbola a Milano. «Siamo stati per anni abituati a interpretare il ruolo e l'attività del designer in chiave soprattutto manifatturiera, oggi in uno scenario in profondo mutamento stiamo osservando invece l'emersione di figure di designer che operano come creatori di contenuti digitali, designer che manipolano aspetti organizzativi o designer legati a nuovi ambiti come la biologia o la giurisprudenza» ha scritto Cabirio Cautela, ceo di Poli.design. Oltre all'innovazione però Micelli invita a guardare anche ai mutamenti dei mercati. «Il mondo non è più piatto, alla Friedman e quindi va aggiornato il marketing mix della nostra proposta di made in Italy». Che significa? «Vendere camicie ai cinesi o venderle agli svedesi non è la stessa cosa. Incroceremo valori dei consumatori che sono molto differenti. E, ad esempio, è assai diverso il peso assegnato alla so stenibilità. Nei Paesi occidentali è un valore più cogente e ci dovrebbe indurre a un posizionamento del nostro prodotto capace di registrare questa differente sensibilità».

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Imprese tricolori. Dopo la festa, un vero progetto - Dario Di Vico | Corriere della Sera Economia

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