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Pierangelo Soldavini - Giornalista esperto di tecnologia e innovazione, Sole 24 Ore

L’impresa ha bisogno di fondi per svolgere la propria attività: che sia per finanziare progetti di investimento in beni capitali per l’espansione o per realizzare un’innovazione per una start up all’inizio della propria avventura, per anticipare profitti futuri o per finanziare il circolante, le imprese hanno da sempre fame di credito. Tanto che spesso, agli albori dell’industrializzazione e all’interno di territori delimitati, erano le imprese stesse a unire le forze per sopperire alle esigenze finanziarie reciproche: chi aveva più disponibilità e più liquidità la metteva a disposizione di chi ne aveva bisogno. Nasce da questo schema territoriale l’idea del mutualismo creditizio, che ha dato vita alle casse artigiane e rurali, sviluppatesi poi nella rete delle banche di credito cooperativo.
In virtù della loro forte presenza, conoscenza e sensibilità territoriale le banche hanno rappresentato storicamente il principale canale di accesso al credito e ai servizi finanziari più in generale, diventando anche leva per la formazione di una cultura più evoluta per le imprese dal punto di vista finanziario. Nella seconda parte del XX secolo gli istituti di credito – almeno quelli più tradizionali – hanno progressivamente sviluppato e strutturato la propria attività finanziaria, con il risultato che, nonostante la loro presenza capillare sul territorio, l’offerta di servizi bancari è andata progressivamente scollegandosi dalle esigenze delle imprese con una standardizzazione di prodotti e procedure che ha provocato un inesorabile allontanamento tra banche e mondo imprenditoriale. A soffrire è stata in particolare la piccola e media impresa, cuore fondante dell’economia italiana, che da decenni denuncia un profondo distanziamento rispetto al sistema bancario tradizionale, che per contro privilegia un’offerta piuttosto rigida e poco flessibile nei confronti di una domanda che punta su un’attenzione più specifica che sappia rispondere a esigenze a tutto tondo in campo bancario.

Negli ultimi anni, però, la situazione registra un’inversione di tendenza. Da una parte, infatti, le rinnovate esigenze delle imprese – tanto più in un momento di emergenza come la pandemia del Covid-19 – si sono incrociate con una trasformazione culturale del sistema finanziario sotto la spinta dell’innovazione tecnologica e digitale che ha permesso di mettere in campo nuovi strumenti più flessibili e adeguati alle singole esigenze. La stessa emergenza pandemica ha avuto l’effetto di accelerare il riavvicinamento dei soggetti: le imprese tra di loro, sulla base di una rinnovata solidarietà mutualistica che si è concretizzata nelle relazioni di fiducia all’interno delle filiere industriali, e le imprese con il sistema bancario, in difficoltà di fronte alla trasformazione tecnologica che ne riduce la presenza sui territori. D’altra parte, negli ultimi tre anni le imprese hanno dovuto affrontare un “new normal” che assomiglia sempre più a un “never normal”. Le restrizioni provocate dalla pandemia, le esigenze di liquidità conseguenti al lockdown improvviso, le tensioni geopolitiche, la fiammata inattesa dell’inflazione, la carenza (e l’aumento di prezzo) delle materie prime, le difficoltà nella catena di fornitura hanno contribuito a dare vita a uno scenario produttivo in continua trasformazione.

In questa logica la tecnologia ha rappresentato uno strumento potente per lo sviluppo di una nuova classe di attori bancari più attenti a incrociare i bisogni delle aziende di ogni tipo – ma con un occhio di riguardo per le realtà medio-piccole, fino ai professionisti e alle microimprese – sotto il profilo finanziario. L’innovazione delle società fintech che sviluppano specifici servizi ad hoc in chiave verticale va infatti non solo a fornire soluzioni pronte all’uso e più flessibili per le imprese, ma anche a stimolare il sistema bancario tradizionale ad avviare una trasformazione dell’offerta per avvicinarsi all’utenza aziendale. Un’indicazione chiara viene dal digital lending di operatori di finanzia alternativa (ovvero l’erogazione diretta di finanziamenti da parte di soggetti non bancari) che in soli quattro anni, dal 2019 al 2022, ha toccato i dieci miliardi di euro, sostenendo 28mila aziende che in caso contrario avrebbero avuto difficoltà a reperire i fondi necessari per la prosecuzione dell’attività.

Ma non si tratta solo dell’accesso al credito. Lo sviluppo fintech ha abilitato una trasformazione dell’offerta nel senso dell’integrazione dei servizi finanziari all’interno delle imprese. Si sono sviluppate così applicazioni che offrono conti correnti e servizi di base che permettono di aver chiari costi e servizi. La nascita di servizi verticali ha permesso alle aziende di assimilarli al proprio interno: l’integrazione in maniera semplice e funzionale dei sistemi informatici gestionali con servizi di pagamento, di contabilità amministrativa, di fatturazione e di monitoraggio della situazione finanziaria promettono di trasformare la cultura finanziaria delle aziende, rendendole più consapevoli e aumentandone l’efficienza in fase operativa. Siamo ancora in una fase iniziale, ma la strada avviata punta nella direzione di supportare lo sviluppo delle imprese sotto questo profilo. Già se n’è avuto un esempio chiaro nell’ambito della solidarietà di filiera con lo sviluppo della finanza lungo la supply chain industriale che ha rappresentato uno strumento cruciale su cui fare leva per agevolare l’operatività e ridurre i rischi fornendo capitale circolante in maniera più agile, migliorando il flusso di cassa, riducendo i costi. È una trasformazione radicale che parte dal fabbisogno contingente di credito per arrivare a un miglioramento complessivo della cultura finanziaria delle imprese.

Negli ultimi anni i rischi legati alle forniture si sono rivelati i più pericolosi per le aziende: basta un solo blocco nel flusso per mettere in tensione l’intera catena industriale, con ricadute a cascata. L’aspetto relazionale della supply chain finance rappresenta così la nuova modalità in cui si esprime la solidarietà: gli interessi di filiera prendono il posto dei legami territoriali. Crédit Agricole ha fatto entrare Energia Italia nella sua “Piattaforma di Supply Chain Finance” attivando il servizio di confirming che facilita l’accesso al credito dei fornitori che possono beneficiare dello standing creditizio della capofiliera, appunto Energia Italia. Unicredit utilizza lo stesso strumento del confirming unito al dynamic discounting, un processo di reverse factoring per permettere ai fornitori del retailer Cisalfa Sport di beneficiare della possibilità di accedere all’anticipo dei crediti commerciali nei confronti della capofiliera. Intesa Sanpaolo prosegue l’accordo con lo storico marchio di cioccolato Venchi per la concessione di facilitazioni creditizie ai rivenditori “a valle” della capofiliera. Non solo: nel Programma Sviluppo Filiere di Intesa Sanpaolo, dedicato appunto alla crescita delle PMI nelle filiere produttive, è stata implementata una piattaforma di confirming, già utilizzata da circa 800 imprese capofila. Tra queste c’è Fabiana Filippi, importante brand della moda made in Italy, che offre ai fornitori la possibilità di anticipare con l’istituto bancario le fatture commerciali verso la capofila Fabiana Filippi, beneficiando del rating dell’azienda stessa, senza integrazioni da richiedere per il castelletto bancario o fidi aggiuntivi, riducendo notevolmente i tempi di incasso, emesso direttamente dalla banca.

Questa nuova solidarietà di filiera contribuisce anche a mettere al riparo le imprese dai rischi reputazionali legati alla catena produttiva: lavorare con fornitori che hanno performance non soddisfacenti dal punto di vista ESG – nella triplice coniugazione di sostenibilità ambientale, sociale e di governance – può provocare danni irreparabili ai brand finali. Anche se mancano ancora criteri condivisi di certificazione, la sostenibilità rappresenta un criterio cruciale per la valutazione delle soluzioni creditizie di qualsiasi azienda, nell’intera filiera di fornitura. Emerge con sempre maggior rilevanza un tema di responsabilità delle imprese nei confronti degli stakeholder, del territorio e della comunità sulla base di valori che impattano sull’accesso al mercato dei capitali e in questo le banche diventano un soggetto fondamentale della trasformazione. Al danno in termini reputazionali si aggiunge infatti anche un’eventuale difficoltà di raccolta di capitali, attribuibile magari a un fornitore o a un subfornitore: l’esempio più classico è quello della filiera alimentare, nella quale dietro al distributore bisogna tenere conto di altri livelli essenziali come il produttore di mangimi, l’allevatore e il trasformatore, che possono a loro volta dividersi in sottolivelli. In questa chiave si va sviluppando un modello di “deep tier financing”, che punta ad andare oltre il primo livello di fornitura sfruttando tecnologie di frontiera, come la blockchain, utilizzata per tracciare transazioni e fatture lungo la filiera. Questa modalità di finanziamento di “profondità” ha sviluppato anche un modello basato su una rete di imprese, costituita di rapporti di “molti a molti”: un’impresa può caricare su una piattaforma le fatture che verranno pagate e regolate sulla base di un bilanciamento dei flussi finanziari in entrata e in uscita per ogni impresa coinvolta. Un modello ancora sperimentale, che enfatizza l’effetto di connessione tra le imprese valutato sulla base di algoritmi di intelligenza artificiale.

La piattaforma tecnologica è altresì fondamentale per lo sviluppo di forme alternative di finanziamento come il crowdfunding, che ha trovato in Italia una sua dimensione regolamentare, non solo in chiave di sviluppo di nuove idee imprenditoriali innovative, ma anche per la realizzazione di progetti specifici. Inoltre l’intercettazione delle nuove esigenze di sostenibilità può diventare anche fonte di una rinnovata alleanza tra il mondo industriale e creditizio. Da qualsiasi parte lo si guardi – dal punto di vista tecnologico, culturale o relazionale – il nuovo legame tra imprese e banche si va così sviluppando sulla base della trasparenza e dell’apertura, evitando un pericoloso ritorno a un passato di immobilismo e chiusura.

> Continua a leggere il rapporto "Coesione è Competizione" p.21

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