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di Carlo Cambi

Converrà partire da una data: 24 settembre 1716. Cosimo III° de Medici Granduca di Toscana inventa di fatto le Doc, anzi le Docg. Promulga il famoso bando “Sopra la Dichiarazione de’ confini delle quattro regioni Chianti, Pomino, Carmignano e Valdarno Superiore” in cui proclama che i vini prodotti in quei territori debbano portare quella denominazione ed esser destinati “massimamente all’esportazione”. Poiché l’editto non era un vero e proprio disciplinare di produzione – cioè indicava i confini, ma non i processi – ecco che Cosimo III si preoccupa di istituire le Congregazioni di vigilanza sulla produzione. Erano le bisnonne dei Consorzi di tutela e ben si capisce perché con una tale eredità alle spalle la Toscana abbia insito nel Dna del suo produrre agricolo il concetto di territorio e di disciplina della qualità. Giusto per capirci: il regolamento che Napoleone, pure lui il terzo, emana nel 1855 e su cui poggia la classificazione “mitologica” dei Cru francesi è roba quasi da dilettanti appetto a quella medicea. Eppure pochissimo se ne parla di questa intuizione normativa che riassume, a veder bene, come è stata concepita, dagli etruschi in poi dacché furono loro a etichettare le anfore con la provenienza spesso così taroccando i vini di Cipro, la produzione agricola toscana.

Sembrerebbe che David Ricardo, considerato il “padre” dell’economia classica, quando pensa all’interno della teoria del valore a un’eccezione e spiega che determinati vini che nascono in determinati territori spuntano un prezzo che è legato alla scarsità e non alla quantità abbia fatto un giro tra Chianti e Valdarno, tra Pomino e Carmignano! Ci sono altre tre circostanze che spiegano la propensione delle produzioni toscane alla creazione di valore attraverso il riferimento territoriale: la prima è che la nobiltà toscana non ha mai inteso la campagna, e prova evidentissima di questo sono tanto il Chianti quanto la maremma, come buon retiro, ma come luogo di produzione, la seconda ragione è che da sempre i fondi sono stati condotti in mezzadria e per quanto disagiate fossero le condizioni dei contadini essi sono sempre stati anche imprenditori di sé medesimi, la terza il lavoro di fertilizzazione tecnologica che tanto le abbazie quanto le università hanno compiuto. Non è un caso che l’Accademia dei Georgofili, la più antica e prestigiosa società di studi agronomici, sia sorta e operi a Firenze dal 1753 (il giorno di fondazione è il 4 giugno). E stando ai giorni nostri questa valorizzazione complessiva del territorio si è tradotta nella fondazione in Toscana del Movimento turismo del vino e dell’agriturismo come forma attiva di ospitalità rurale.

Da questi presupposti si evince che l’agricoltura e l’agroalimentare sono dalle Apuane all’Argentario motore economico potente, ma anche fortissimo cemento delle comunità. E per comprendere il rapporto tra citta e campagna in questa regione c’è un manifesto magnifico: sta a palazzo pubblico a Siena e fu composto in un anno (dal 1338- al 1339) da Ambrogio Lorenzetti: è il ciclo Allegoria ed effetti del buono e del cattivo governo. Si vedrà nelle stanze che ospitavano il “governo dei nove” come il rapporto osmotico tra città e contado sia elevato a fondamento del buon governo. Si spiega così che delle 31 denominazioni europee (tra DOP e IGP escludendo i vini) che connotano i prodotti toscani vi è un continuo rimando tra borgo e municipio, ma anche una particolare valorizzazione dei prodotti del bosco. Basti considerare che dai castagni si ricavano ben cinque prodotti a marchio: il Marrone Dop di Caprese Michelangelo il piccolo paese dell’aretino che dette i natali al Buonarroti, seguono il neccio della Garfagnana, la farina di castagne della Lunigiana dove si trova un altro prodotto eccezionale come l’agnello zerasco che pure se non ha il marchio europeo connota la comunità di Zeri come uno dei luoghi dell’aristocrazia pastorale, il marrone del Mugello e la castagna dell’Amiata, entrambi IGP.

Parlando di alberi, in Toscana non si può sorvolare sull’olio extravergine di oliva. Gli ulivi qui sono marcatori del paesaggio al pari dei cipressi – la Toscana è forse l’unica terra dove gli alberi a punta costituiscono un vero gotico della natura: sono accuditi e coltivati come se dessero frutto quando in realtà servono a dare riparo alle colture e agli uccelli – e sono alimento principe. L’olio extravergine di oliva Toscano IGP, l’olio extravergine di oliva Chianti Classico DOP, l’olio extravergine di oliva Terre di Siena DOP, l’olio extravergine di oliva Lucca DOP, l’olio extravergine di oliva Seggiano DOP sono i campioni di queste coltivazioni del tutto tradizionali e che connotano il paesaggio delle colline. Con questi extravergine si può fare certo una ribollita, ma il massimo è farsi una bruschetta con una fetta di Pane toscano DOP. Perché un pane DOP? Perché in Toscana la panificazione che conosce infinite varianti vernacolari – dal Montegemoli all’Altopascio per dirne solo due – ha caratteristiche legate ai grani (ad esempio al Verna al Gentil Rosso), alle acque, alla lievitazione, al fatto che le farine non si raffinano e che per non pagar tassa non si mette il sale! Ma anche perché se esiste una gastronomia del pane, quella è la cucina toscana. Mezzadria significava e significa anche zootecnia e abilità norcina. Si spiega così che Finocchiona IGP, la Mortadella di Prato, il Prosciutto Toscano DOP, il Lardo di Colonnata IGP tra i salumi, Pecorino Toscano DOP che ad esempio ha in Pienza, la città ideale di Papa Piccolomini una delle sue “capitali”, Pecorino delle Balze Volterrane tra i formaggi, Cinta Senese DOP, Vitellone Bianco dell’Appenino Centrale IGP e Agnello del Centro Italia IGP tra le razze allevate siano elementi distintivi della produzione toscana. Che ha in serbo gioielli come lo zafferano di San Gimignano, il farro della Garfagnana, il fagiolo di Sorana, il miele della Lunigiana, i dolci senesi (Ricciarelli e Panforte) e i mitici cantuccini che hanno in Prato la patria d’elezione.

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