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di Carlo Cambi

Forse sono sufficienti quei versi dell’Alcyone: “Settembre andiamo, è tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lasciano gli stazzi e vanno verso il mare; scendono all’Adriatico selvaggio che verde è come i pascoli dei monti.”

Gabriele D’Annunzio più e più volte ha dato della sua terra una descrizione “sentimentale” e qui volendo si potrebbe ragionare su quel plurale: Abruzzi. S’intende forse di quando il Molise era una provincia meridionale di questa terra – fino al 1963 le due regioni erano unite – e dunque si giustifica il plurale? È preferibile invece pensare che Abruzzi – del resto esiste anche il Duca degli Abruzzi un titolo nobiliare dei Savoia-Aosta – si sia stratificato nel tempo a designare la mutevolezza dei paesaggi e delle consistenze territoriali di queste montagne altissime (il Gran Sasso d’Italia è il vertice della catena appenninica e sfiora come gran parte delle vette che gli fanno corona i 3 mila metri) che si specchiano nell’Adriatico. Immediata risulta così la comprensione della ricchezza della dispensa abruzzese che si compone di diversissime coltivazioni e preparazioni, ma ha nella civiltà pastorale il suo filo rosso.

L’Abruzzo è terra di piccole comunità fortificate: basterebbe guardare a Rocca Calascio o a Rocca Scalegna, a Celano come a Ortona per comprendere come le comunità si siano quasi “aggrumate” attorno alle fortificazioni il che però indica che siamo già in una dimensione diversa del lavoro agricolo. Un esempio paradigmatico è senza dubbio Santo Stefano di Sessanio dove l’antico borgo, oggi albergo diffuso, ha riscoperto il suo prodotto più tipico, la lenticchia, proprio sulla spinta dell’attenzione turistica che si sostanzia nell’abitare le case che furono dei contadini. Comincia infatti dall’Abruzzo una sorta di bracciantato o se si preferisce di minimo nomadismo: si va al campo per poi tornare al borgo finito il lavoro, così come i pastori s’incamminano lungo il tratturo regio. Anche sulla transumanza ci sarebbe molto da discutere. Ormai è invalsa l’abitudine di identificare il cammino delle greggi verso la Puglia come il movimento della pastorizia e di certo l’itinerario Pescasseroli-Candela è uno dei più noti e battuti. Ma vi era anche una transumanza da Oriente a Occidente e di certo c’era un traffico commerciale tra i due mari che sfruttava i passi d’Appenino: basti solo pensare ai rapporti tra Atri e Firenze. Dunque immaginare l’Abruzzo come terra isolata, confinata dalle sue alte montagne, è del tutto errato. Se si percorre l’altopiano delle cinquemiglia (storico itinerario che portò Vittorio Emanuele II all’incontro con Giuseppe Garibaldi a Teano) o ci si affaccia al bacino del Fucino, ben si comprende come l’Abruzzo sia stato in continua osmosi con l’Occidente e come questo flusso intersechi l’itinerario adriatico sorvegliato dall’alto da borghi come Lanciano, Penne, Loreto Aprutino, Guardiagrele, Semivicoli, Atessa. Ognuno di questi centri ha la sua peculiarità agricola. Viene così in mente Fara San Martino che è una delle capitali della pasta in Italia. Va detto che nei campi d’Abruzzo si coltivano ancora i grani di un tempo a cominciare dalla Saragolla arrivata dall’Egitto che è un duro precoce, parente stretto del korasan e dunque di un grano che viene venduto con marchio commerciale. Ma altri sono i grani duri come la Ruscìa e il Marzuolo che imbiondiscono le rare pianure e le colline abruzzesi accanto a spighe di tenero che danno pani fragranti: la Solina, la Casorella, la Rosciola che fanno compagnia al farro tornato in auge. A Fara San Martino le acque del fiume Verde hanno determinato che si formasse un vero e proprio distretto della pasta secca. Così come si potrebbe dire di Scanno o di Rivisondoli che hanno una sorta di vocazione casearia innata.

Parlando di formaggi bisogna dire che l’Abruzzo è ricchissimo di variazioni sul tema, tutte in attesa di certificazione anche se l’idea di una DOP regionale avanza a gran passi. Ma certo non si può dimenticare il Pecorino di Farindola, il solo a caglio di maiale e che la tradizione vuole sia lavorato solo dalle donne. Eccelso è il Pecorino di Atri come l’Incanestrato di Castel del Monte per non dire di mozzarelle, scamorze ricotte e provoloni che sono la conseguenza diretta della cultura pastorale. Che dà anche altri due prodotti eccelsi. Il primo è l’agnello del centro Italia DOP, il secondo sono gli arrosticini sui quali vi è una disputa se certificarlo come IGP o come DOP. Ma la disputa in sé racconta di come la declinazione territoriale delle produzioni accenda i campanili. Su una cosa sono tutti d’accordo: che lo zafferano di Navelli è dell’Aquila (la DOP questa menzione riporta), che rimane uno dei massimi gioielli del territorio abruzzese.

Tra i prodotti che meritano la sottolineatura c’è sicuramente la liquirizia di Atri, mentre un monumento andrebbe fatto ai confetti di Sulmona dove si coltiva anche l’aglio rosso, altro “dono” dell’orto di cui l’Abruzzo dovrebbe menare vanto. Così come tra le produzioni orticole vanno citati gli ortaggi della piana del Fucino: in particolare la patata DOP e la carota IGP. Spessa è la produzione norcina dell’Abruzzo che però non si è ancora affacciata alla certificazione europea. Tra i tanti salumi uno merita la citazione massima: la ventricina che si chiama così perché insaccata nello stomaco del maiale. Ha sostanzialmente due versioni: quella vastese (che si ritrova anche in Molise) più magra, quella teramana molto più grassa. Ad accomunarle l’uso abbondante di peperone nell’impasto.

Gran vanto dell’Abruzzo è l’olio extravergine di oliva. Ben tre sono quelli certificati: l’Aprutino Pescarese DOP, diffusa nella provincia di Pescara che ha nella Dritta, Leccino e Toccolana le cultivar di riferimento; il Colline Preatine Dop, tipica delle colline di Chieti, prodotto essenzialmente con oliva gentile di Chieti e Leccino; il Pretuziano delle colline Teramane, che nasce sulle colline teramane e si ottiene da Leccino, Frantoio e Dritta e altre varietà come il Tortiglione, la Carboncella e la Castiglionese. E proprio gli extravergine stanno a significare quanto la variabilità geografica incida nel determinare le caratteristiche dei prodotti d’Abruzzo.

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