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La cura per l’ambiente e l’aspirazione a vivere in modo “sostenibile” non sono patrimonio esclusivo degli ammiratori di Greta Thunberg. È vero: l’esasperazione ispirata dai sermoncini globalisti diffusi a tutto andare dal mainstream politicamente corretto induce non poche persone a considerare con diffidenza e scetticismo la questione ambientale nel suo complesso.

Sbagliando. Perché chi si dice “conservatore” non può lasciare ai “progressisti” l’onore e l’onere di cercare il modo migliore di “conservare” il creato. L’obiettivo non può che essere lo stesso, magari sarà diversa la strada per arrivarci. Invece dell’umanità “cancro del pianeta”, proviamo a ricordare, con Joseph Ratzinger, che tra ecologia della natura ed ecologia umana c’è identità di destino. Che se l’umanità fa il deserto nella propria anima, un paesaggio devastato e una città inabitabile saranno tutto quello le resta.

“C’è piuttosto una insospettabile relazione positiva tra sostenibilità e identità” commentava qualche giorno fa Fabio Renzi, segretario generale della Fondazione Symbola, in un intervento presso l’Istao. La sede di uno dei più prestigiosi e longevi Istituti di formazione manageriale (intitolato ad Adriano Olivetti e voluto da Giorgio Fuà) ha ospitato le considerazioni sviluppate da chi in questi anni si è proposto di “unire e dare forza a imprese, comunità e intelligenze che puntano su sostenibilità, innovazione, bellezza”.

Symbola ha scattato dieci selfie al Paese, “mettendo in fila alcuni punti di forza del Paese, poco noti ma di cui andare fieri”. Dieci fotografie che dimostrano il nesso (niente affatto “insospettabile”) tra sostenibilità e identità; identità nazionale italiana e identità intesa come radicamento territoriale nei luoghi del Paese che talvolta si possono avvertire come esclusi, o almeno emarginati, dalla narrazione globalista.

Perché, come diceva Roger Scruton, il filosofo inglese morto pochi mesi fa - la difesa dell’ambiente è legata a filo doppio con i tre pilastri del conservatorismo: il legame tra presente, passato e futuro, la priorità del locale, la ricerca delle radici. Anzi della “casa”, in greco “oikia”, vi ricorda qualcosa?

La tutela dell’ambiente è, in definitiva, un gesto autenticamente patriottico ed evoca l’identità più profonda di un popolo. Questo ho letto nel manifesto di Assisi, presentato proprio da Symbola nel gennaio scorso, e che ha già raccolto l’adesione di centinaia tra rappresentanti di istituzioni, mondo economico, politico e della cultura e cittadini.

La vera sfida al cambiamento climatico si gioca in una economia a misura d’uomo, un’economia civile, di fiducia e di relazione, che vede l’Italia protagonista per cultura, tradizione e vocazione imprenditoriale. “L’Italia è leader mondiale nella produzione di bioplastiche – ha ricordato Fabio Renzi – e nei processi di eliminazione delle microplastiche nei mari. Non solo. L’Italia è campione dell’economia circolare”, la frontiera più intelligente dello sviluppo sostenibile.

Prima di essere suggestione degli orizzonti green – la stessa suggestione che ha indotto tutti i big dei mercati dei capitali a valorizzare ogni iniziativa riconducibile all’etichetta della finanza sostenibile, a partire dal colosso Blackrock – l’economia circolare è la pratica di processi innovativi che rinascono dalle profonde radici della cultura economica nazionale.

Potremmo evocare la rivoluzione capitalista popolare del Medioevo, quella che fa nascere il prestito e che si oppone all’usura, che sostituisce l’economia del desiderio a quella del bisogno, e che pone le basi per quell’originale sviluppo della vocazione industriale italiana, per cui non ci si limita a produrre l’utile, ma si vuole che sia bello. Secondo la vecchia e sempre attuale definizione di Carlo Maria Cipolla, le imprese italiane “all’ombra dei campanili producono cose che piacciono al mondo”.

L’identità nazionale è in piena sintonia con i manifesti della sostenibilità, che non fa sempre rima con globalizzazione. Ma c’è di più. C’è una linea di frontiera della sfida ambientale che attraversa i territori esclusi ed emarginati dal verbo globalista. Le “aree interne” – sì, anche le zone montane del Paese – sono chiamate a un nuovo protagonismo, proprio in nome del “new green deal”.

A condizione di abbandonare la logica del risarcimento. La montagna – italiana e non solo – può e deve cogliere l’occasione di una rinnovata centralità culturale e progettuale. L’obiettivo non deve essere quello di farsi restituire il passato sottratto, ma di scommettere sul futuro prossimo.

È vero che il Novecento gli è stato nemico. Il secolo breve della violenza e della sopraffazione ideologica ha preferito i fondovalle, le coste, le facili conurbazioni produttive, i capannoni industriali, le vie di comunicazione e di trasporto più economiche. La contemporaneità invece si mostra più amica delle “aree interne”: il digitale ridisegna le prossimità, trasforma le vie e le priorità di comunicazione; la ricerca di sostenibilità vitale ripropone luoghi da recuperare, da frequentare (il fenomeno crescente, sia laico sia religioso, dei camminatori), da abitare.

Quante periferie italiane sono diventate centrali perché scelte come nuova residenza da cittadini del mondo: dall’entroterra della Toscana e della Liguria al Salento, dall’Umbria alle Marche e oggi anche l’Abruzzo e il Molise. Le traiettorie del futuro sostenibile passano dalla montagna. È nella montagna che si manifestano i segni della crisi climatica planetaria; ed è nella montagna che devono essere elaborate le risposte, demografiche ed economiche, sociali e culturali. I ghiacciai che si sciolgono sono le immagini della “nostra” Amazzonia: là sono le foreste a venire meno per opera dello sfruttamento senza progetto, qui sono le riserve d’acqua e i boschi che rischiano di non poter più essere quell’insostituibile fattore di equilibrio dei sistemi eco-climatici.

Ecologia, e torniamo al prefisso greco “oikia”: casa, patria. Casa e patria planetaria? Sì, ma non solo. È evidente che occorrano approcci globali, concertati su base internazionale. Ma la vera difesa dalla degenerazione ambientale non deve essere globale ma locale, o meglio nazionale.

Le azioni necessarie alla protezione del clima devono attraversare le nazioni. Difendi meglio la natura se ami e conosci l’ambiente che devi difendere. Il tema è riverberato la scorsa settimana a Roma, durante i lavori del Congresso dei partiti nazionali conservatori. Marion Marechal ha rivendicato ai partiti conservatori il diritto-dovere di affrontare la sfida ecologica e ambientalista. Ma “un’ecologia integrale, dove tutela della natura e salvaguardia della dignità umana devono andare di pari passo. Non c’è solo il clima ma anche la natura umana da proteggere dai cambiamenti”.

Sostenibilità e identità sono facce della stessa medaglia. Sono elementi indivisibili che la retorica globalista non può e non deve spezzare.

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La sfida ambientalista dei conservatori - Guido Castelli | Huffingtonpost.it

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