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Scrive nel suo insuperato “Viaggio in Italia” Guido Piovene: “La collina marchigiana, volgendosi verso l’interno è quasi un grande e naturale giardino all’italiana. È il prototipo del paesaggio idillico pastorale. Se si volesse stabilire qual è il paesaggio italiano più tipico, bisognerebbe indicare le Marche, specie nel maceratese e ai suoi confini. L’Italia nel suo insieme è una specie di prisma, nel quale sembrano riflettersi tutti i paesaggi del Terra, facendo atto di presenza in proporzioni moderate e armonizzandosi l’un l’altro. L’Italia, con i suoi paesaggi, è un distillato del mondo. Le Marche dell’Italia. Qui abbiamo l’esempio più integro di quel paesaggio medio, dolce, senza mollezza, equilibrato, moderato, quasi che l’uomo stesso ne avesse fornito il disegno.” Forse basterebbe questo a definire perché l’agricoltura e di conseguenza la produzione agroalimentare marchigiana ha un’eleganza formale impeccabile e insieme vive una sorta di understatement. Quasi avesse timore di peccare di boria. Eppure a rileggere la convenzione universale del paesaggio (firmata a Firenze nel 2000) sembra di sentire le parole di Piovene e dunque il ritratto delle Marche là dove è scritto: “Paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni.” È un paesaggio benedettino e cistercense quello marchigiano: plasmato dall’uomo. Per saperlo basta andare a Fonte Avellana o a Chiaravalle di Fiastra vedendo come l’attività agricola ha modellato il “mondo”.

Ci sono infinite suggestioni trascorrendo la campagna marchigiana e anche qui si percepisce come il triplo apporto delle abbazie, della mezzadria e dell’aristocrazia cadetta – al pari di quel che si è detto per la Toscana, anche le Marche hanno la loro accademia di prestigio in fatto di scienza e agricoltura: l’Accademia Georgica di Treia che sorge nel 1430 per opera di Bartolomeo Vignati come riunione di umanisti e si trasforma a metà del ‘700 in “cenacolo” di scienza applicata e allora la prima applicazione era ai campi – abbia conformato le produzioni. Che non sono quasi mai esclusivamente massive: cioè vocate alla quantità, ma semmai sono specializzate. La ragione? Certo sta nella prassi mezzadrile, ma anche nel fatto che le Marche non hanno mai avuto città preponderanti sul contado che anzi si connota e s’ingentilisce delle sue tante città murate, dei rocchi di case sparse qua e là. E vi è anche in questo una ragione agricola. Molto rimanda a Papa Sisto V che fu il vescovo di Montalto, il pontefice che ha cambiato il volto delle Marche e che è stato anche un Papa mugnaio! Per saperlo è sufficienze affacciarsi nella campagna della Valdaso dove ancora c’è il mulino fortificato che fu affidato alle cure di Camilla Peretti, la sorella del Papa. Sisto V volle tra le tante cose che le Marche diventassero il granaio dello Stato pontificio. Siamo alla fine del ‘500 quando – tanto per stare dalle parti dell’eccellenza agricola di questa terra – Andrea Bacci archiatra del pontefice manda alle stampe il “De Naturali vinorum historia”, il primo trattato al mondo che codifica come si fa lo spumante con la rifermentazione in bottiglia.

Ebbene l’impulso di Papa Sisto V oltre a segnare la fine delle risaie costiere (l’ultima verrà chiusa a Montelupone agli inizi dell’800 dopo una “strage” di malaria) confina nell’altissimo Appennino la pastorizia che è stata il propellente dell’industria del panno lano di cui erano detentori i signori di Camerino, i duchi Da Varano. E le case sparse che si incontrano qua e là sono le case di “comunisti”, coloro i quali avevano raccolto delle greggi dei pastori convertiti in contadini e le pascolavano per tutti. Magari oltre Macereto, oltre il Furlo dove si trovano le genzianelle alla base degli amari officinali di derivazione benedettina vanto della liquoristica marchigiana che tra anisetta e mistrà ha pochi eguali nel mondo. Il grano come vita (la jervicella da cui si originano anche i cappelli di paglia di Montappone!)  diviene sinonimo di marche: lo sa Nazzareno Strampelli che da Crispiero sfamerà il mondo con le sue spighe moltiplicate e modificate.

Lo sa anche Gino Girolononi che gli inizi degli anni 60 predica il biologico con i grani antichi, con la pasta fatta da miscuglio. Da Arcevia quel messaggio è passato nel mondo e oggi le Marche sono la prima regione interamente a coltivazione biologica in Europa. Ebbene poteva non nascere un distretto della pasta da tanto impulso? E così è. I maccheroncini di Campofilone Igp sono l’evidenza di un distretto della pasta all’uovo che dal fermano abbraccia il maceratese, l’anconetano, stesse terre dove anche la pasta di grano duro è un’eccellenza. Tanto per dirne una anche una “pasta” intesa come primo piatto ha conquistato un riconoscimento unico: i Vincisgrassi alla maceratese sono la quarta specialità tradizionale garantita d’Italia, ma guai a chiamarli lasagne! E del resto qui si concentra – proprio sull’eredità di Nazzareno Strampelli – uno dei poli di ricerca più importanti d’Europa in fatto di cerealicoltura. È quella marchigiana senza dubbio un’agricoltura colta. Un esempio è senza dubbio la Casciotta d’Urbino di cui fu produttore ed estimatore Michelangelo Buonarroti. Si vuole che Francesco Amatori, fattore del genio di Caprese in quel di Casteldurante (oggi Urbania) detto l’Urbino, sia stato il produttore principe di questo formaggio di doppio latte, fresco di pascolo. Ed è il progenitore del formaggio di Fossa di Sogliano che si produce anche in tutta la zona feltresca, dove s’incontra un altro vanto della produzione marchigiana: il prosciutto di Carpegna Dop che prende vigore dalle ere di questi mondi. Così come delle arie salmastre del pesarese si giova l’olio extravergine di Cartoceto DOP. All’ulivo le Marche sono dedite in modo particolare tant’è che l’extravergine marchigiano IGP ha infinite declinazioni perché tantissime sono le cultivar diffuse in regione. Ma forse la più nota è l’oliva ascolana Dop sia in salamoia sia ripiena e fritta, vanto di ogni mensa di queste parti.

Un cenno particolare va fatto alla zootecnia (così si spiega il distretto delle calzature!) con la razza Marchigiana che s’avvantaggia dei prati pascolo dei monti della Sibilla. Il bue bianco dell’Appenino è peraltro un monumento a madre natura. Ma non si può parlare di Marche senza citare il suo salume più famoso: il ciauscolo IGP. Fa parte con la ventricina e la nduja dei salumi spalmabili, è l’emblema della vita contadina delle genti dell’Appenino dacché questo salame morbido, impastato col Verdicchio, un filo d’aglio e leggermente affumicato era la merenda dei contadini e oggi è la gioia del nostro palato.

 

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