Newsletter

Secondo una ricerca della Fondazione per la Sostenibilità Digitale, i due mondi ancora faticano a dialogare. «Ma il vero problema», dice Ermete Realacci, «è sostituire una cultura di blocco con una cultura del fare» di Chiara Severgnini ambientalismo è (ancora) un po' troppo tecno-diffidente digitalizzazione e transizione verde sono due pilastri del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che destina loro, rispettivamente, il 20 e il 37 per cento delle risorse. Tecnologia e sostenibilità dovrebbero andare a braccetto, ma fanno capo a due mondi che ancora faticano a dialogare. È quanto emerge da una ricerca della Fondazione per la Sostenibilità Digitale, secondo cui "i coefficienti di adozione degli strumenti orientati alla sostenibilità non risentono in alcun modo del punto di vista dell'utente sull'importanza dei problemi connessi a clima, inquinamento, sostenibilità". Tradotto: non è affatto detto che una persona a cui sta a cuore il Pianeta utilizzi termostati smart, car sharing, app per la riduzione degli sprechi alimentari o altri strumenti che consentono di ridurre l'impatto ambientale. Al contrario, la tecno-diffidenza di alcuni ambientalisti sembra tradursi in scelte paradossali: dalla ricerca "Italiani e sostenibilità digitale", ad esempio, emerge che solo il trenta per cento di coloro che considerano chinate change e inquinamento come problemi prioritari fa uso dei servizi di smart mobility, mentre la percentuale sale al quarantadue tra chi se ne disinteressa. Nell'ambientalismo italiano esiste dunque una vena tecnofoba? «Sì, questo è quello che emerge dai dati, e la diffidenza verso l'innovazione si rintraccia in persone di ogni età», risponde Stefano Epifani, presidente della Fondazione per la Sostenibilità Digitale. Ma, avverte, se innovazione e ambientalismo non si riconciliano, «non solo la tecnologia non ci sarà di aiuto, ma non saremo neanche in grado di sfruttarla come potremmo. Rinunceremmo a un vantaggio possibile in funzione di uno svantaggio certo». Epifani spiega che ci sono slogan cari all'ambientalismo che non hanno alcuna chance di tradursi in realtà senza un'iniezione di tecnologia, come l'economia circolare: «L'unico modo per gestire processi di circolarità economica è avere a disposizione piattaforme e infrastrutture digitali». «Ci chiediamo spesso che impatto ha la tecnologia sull'ambiente, forse dovremmo chiederci di più anche quanto possa essergli utile», riconosce Annalisa Spalazzi, 32 anni, ambientalista e dottoranda al Gran Sasso Science Institute. Ma c'è un caveat: «Credo sia importante ragionare soprattutto sul perché non riusciamo a fame a meno». Secondo Spalazzi che ha lavorato a lungo al Climate-KIC dell'European Institute of Innovation and Technology, che affronta il cambiamento climatico attraverso l'innovazione la corsa al nuovo a tutti i costi è «problematica», perché «la tecnologia dovrebbe essere l'ultimo tassello»: «Prima», argomenta, «bisognerebbe valorizzare l'esistente». Scelte di vita Lei, che su Twitter sfoggia l'hashtag #greeninnovation, è certa che l'ambientalismo, inteso in una dimensione collettiva, . non possa fare a meno dell'innovazione. E crede che molta della tecnofobia mappata dalla ricerca citata in apertura si possa ascrivere a cause contingenti. «La sostenibilità», spiega, «ci mette sempre di fronte a dei compromessi. Quando lavoravo al Climate-KIC mi occupavo di clima ogni giorno, ma prendevo tantissimi aerei e consumavo enormi quantità di energia per essere sempre connessa. Ora vivo in un paesino sull'Appennino dove ho uno stile di vita più sostenibile. Però qui la smart mobility non esiste e anche usare le app contro lo spreco alimentare è più difficile che in città». Insomma, questione di scelte: talvolta libere, talvolta obbligate. Lo pensa anche Fabio Mazza, 25 anni, studente e attivista del movimento ambientalista Extinction Rebellion: «Se guardo ai miei coetanei che hanno a cuore l'ambiente, nessuno possiede un termostato smart: viviamo in affitto, in case da studenti. Ci viene da chiederci: "Perché spendere tutti quei soldi per consumare un po' meno quando possiamo semplicemente consumare un po' meno?". Certo, se trovassi una casa che grazie alla domotica ha un impatto ambientale ridotto, ne sarei contento». Fabio Mazza, che si sta laureando in fisica all'Università di Trento, non si reputa affatto tecno-diffidente. «Mi interessa l'innovazione, soprattutto se può aiutarci a fare il bene dell'ambiente. Ma prima di acquistare qualcosa mi chiedo: "Questo strumento tech mi serve davvero?"». Tra gli ambientalisti che conosce, quelli davvero ostili alla tecnologia sono pochi e quasi tutti over 40: «Tra loro ce ne sono alcuni che rifiutano qualsiasi cosa che non sia l'adozione di uno stile di vita più naturale. Per esempio, mentre le energie rinnovabili convincono tutti i miei coetanei, tra gli attivisti adulti c'è chi crede che siano inadeguate, perché, tra produzione e smaltimento, anche i pannelli fotovoltaici sono un problema». La strada europea «È vero, ci sono alcuni ambientalisti che potremmo definire tecnofobi», riconosce Ermete Realacci, presidente onorario di Legambiente oggi a capo di Fondazione Symbola, «ma questo non significa che l'ambientalismo nel suo insieme dica "no" a prescindere alla tecnologia. Certo, bisogna selezionare: alcune innovazioni sono alleate della sostenibilità, altre no, come la blockchain, che consuma quantità mostruose di energia! Ma il vero problema è un altro». Ovvero? «La tendenza a esprimere più una cultura di blocco che una cultura del fare». «L'Europa», conclude Realacci, «ha indicato la strada e messo a disposizione i fondi, ora bisogna sistemare le case affinché consumino meno, bisogna fare la transizione verso le energie rinnovabili... Insomma, oltre a combattere le cose cattive bisogna fare quelle buone, e bisogna farle bene».

CONTINUA A LEGGERE
Pianeta 2030-L'ambientalismo è (ancora) un po' troppo tecno-diffidente - Chiara Servergnini | Corriere della Sera

Devi accedere per poter salvare i contenuti