È il riscatto o forse meglio la rivincita della ruralità la foto del Piemonte in dispensa, in cantina e in cucina. Certamente non va dimenticato che all’ombra della Mole si è determinata una operosità del buono urbana e di eccellenza fin dai tempi della prima industrializzazione e che, nel corso degli anni e in alcuni casi dei secoli, ha determinato non solo il successo economico del prodotto italiano nel mondo, ma ha costruito tratti dello stile di vita.
Non si può raccontare il Piemonte del buono prescindendo dai versi di Guido Gozzano: l’atmosfera di elegantissima seduzione, lo sberleffo educato de “Le Golose”, che, come fosse un campionario, contengono il segreto del successo di uno stile piemontese di approccio al buono. Ma è appunto lo stile urbano, cortigiano, se si vuole “industriale”, fatto di vermot – per dirlo alla torinese – e gianduiotti, di creme e di biscotti, di pane stirato e mosto spumantizzato. Oggi emergono come gioielli e produzioni rare e ad altissimo valore aggiunto formaggi un tempo negletti, nascosti in qualche valle, orti sudati, coltivazioni che si pensavano destinate a mercati di sussistenza e di prossimità, salumi un tempo ritenuti grezzi o vernacolari e lo stesso vale per i vini i cui successi oggi planetari datano non oltre un secolo e mezzo quando s’è cominciato a comprendere che la loro peculiare radice e la loro esigua produzione poteva farli assurgere a generatori di valore. Non è un caso che con questo processo di accumulo di valore oggi alcuni dei territori del Piemonte abbiano un prezzo fondiario di assoluto livello. E questo è il riscatto di una ruralità che per almeno due secoli si è vista privata di braccia dal richiamo dell’industria, di paesi e borghi che hanno perso anime e in alcuni casi anche identità e radice, perché alla povertà del sudare la terra si preferiva la fatica certa del salario.
Oggi in alcune porzioni del Piemonte si è determinata un’inversione economica: le piccole comunità riunite attorno a un grande prodotto, corroborate dal valore aggiunto del turismo e sostenute da un commercio globale, hanno condizioni di vita ed economiche largamente superiori a quelle di chi ancora abita le cinture urbane. Peraltro, il Piemonte è la regione a più alta numerosità di piccoli comuni e al netto di quelli che fanno cintura agli agglomerati metropolitani tutti gli altri costituiscono la tessitura rurale di una terra che in fatto di produzioni di territorio e di tradizione ha pochi eguali sia in Italia che in Europa. Non deve trarre in errore il numero non elevatissimo di prodotti a marchio europeo del Piemonte in rapporto appunto alla distribuzione demografica in così tanti comuni al di sotto dei cinquemila abitanti.
La spiegazione sta in due fattori: il primo è che, proprio per facilitare un migliore rapporto con la commercializzazione, vi è stata una buona spinta alla gestione consortile dei prodotti; la seconda è che vi è una straordinaria diffusione di specialità territoriali che si rifanno piuttosto all’uso comune e alla tradizione che alla certificazione. Quasi che il prodotto piemontese – ma è fenomeno che si riscontra anche in altre regioni – avesse una sua declinazione vernacolare e al tempo stesso sentimentale. Ci sono esempi tra i prodotti DOP e IGP del Piemonte che sono la quintessenza dell’origine delle specialità agroalimentari: prassi consolidate nel tempo, caratteristiche peculiari del territorio, abitudini di consumo di una comunità. Viene in mente la Robiola di Roccaverano che riceve il nome dal comune astigiano di montagna: allarga l’areale di produzione a un territorio che però ha come denominatore comune l’allevamento della capra in funzione di sfruttamento dei territori marginali e una condivisione dell’inflessione gustativa di questo formaggio. Del pari si potrebbe dire del Murazzano, di sua maestà il Castelmagno che è tra i formaggi quello che più esplicitamente parla di alpeggio, di comunità ristretta, di esperienza stratificata.
Ma a corroborare l’idea che i prodotti a marchio abbiano determinato un’inversione di tendenza economica in Piemonte e in particolare in Langa ci sono le coltivazioni. Fagiolo, mela rosa, castagna di Cuneo, marrone della valle di Susa, sua maestà la nocciola del Piemonte che è propellente di uno dei distretti gastronomici più importanti d’Europa, raccontano di come la coltivazione un tempo considerata di sussistenza (questo erano soprattutto i castagneti da cui si ricavava una doppia attitudine: frutto e dunque alimento, legno e dunque energia) si sia trasformata in proposta d’eccellenza. Che invece ha una sua continuità e una sua lunghissima vocazione imprenditoriale nel riso (biellese e vercellese) da aver determinato una sorta di economia a sé stante e avere “costretto” i governanti a farne modello di sviluppo. Basta pensare all’imponenza (ma anche lungimiranza) di un’opera come il canale Cavour: 83 chilometri d’acqua al servizio delle risaie. Ma anche dello sviluppo tecnologico e della ricerca per costituire con quel riso un primato mondiale, e per determinare una sorta di antropologia della risaia: quello fu un mondo a parte fatto di conflitti sociali, di immense talvolta caduche ricchezze, fatto di modificazioni dell’ambiente.
E ogni cascina si strutturava come comunità: con la divisione del lavoro, con una sorta di ordinamento autonomo, con la scuola e l’esperienza. Un prodotto globale che si declinava in comunità iperlocale. Poi certo il Piemonte, con la sua estensione e la sua dotazione territoriale, è anche amplificatore di prodotti trans-regionali che nonostante abbia areali di produzione da disciplinare assai vasti, pure si declinano in peculiarità piemontesi: è il caso, ad esempio, del Gorgonzola, dei cacciatorini, del salame Cremona, della mortadella di Bologna, del Grana Padano, del Taleggio. Ma ecco che ogni volta emerge una specificità piemontese capace di produrre la Tinca gobba di Poirino o il prosciutto cuneese, il formaggio di Bra e l’Ossolano, il vitello piemontese dalla coscia o il salame e la toma Piemonte, testimonianze di una perizia agroalimentare diffusa e al tempo stesso unica.