“L’Italia deve far bene l’Italia”, sostiene da tempo la Fondazione Symbola. E cioè valorizzare la sua originale attitudine a tenere insieme creatività artistica e intraprendenza economica, gusto per il “bello e ben fatto” e passione per l’innovazione, spirito civico e qualità d’impresa, rispetto per l’ambiente e cultura del mercato. Dare spazio, insomma, a un capitale sociale intessuto da produttività e solidarietà. Se ne parlerà al seminario annuale estivo di Symbola a Mantova, alla fine di giugno, intitolato appunto “Se l’Italia fa l’Italia - Sostenibilità, Europa, Futuro”. E ne saranno protagonisti economisti, sociologi, politici e donne e uomini al vertici di quelle imprese che, facendo della sostenibilità ambientale e sociale un asset fondamentale della propria competitività, continuano ad occupare i migliori spazio sui mercati internazionali, nelle nicchie di alta qualità ed elevato valore aggiunto.In questi tempi difficili e incerti, in cui le crisi geopolitiche travolgono i tradizionali assetti di potere e le guerre commerciali compromettono le possibilità di crescita economica sia globale che in moltissimi paesi, ridefinire le ragioni di competitività e riorganizzare le catene del valore è una sfida essenziale, anche e soprattutto per le imprese italiane ed europee. La diffusione dell’IA (l’Artificial Intelligence) aiuta ad affrontarla con un certo successo. E il Centro di Supercalcolo “Leonardo”, a Bologna, in raccordo con le università del Nord, le reti d’impresa e i centri di ricerca pubblici e privati, può fare la differenza a nostro vantaggio.
Da sempre, d’altronde, la “cultura politecnica” italiana, capace di trovare sintesi virtuose tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche, da Leonardo da Vinci a Galileo Galilei, dai fisici di via Panisperna ai chimici alla Giulio Natta, premio Nobel per la Chimica nel 1963, dalla Olivetti alla Pirelli e alla Finmeccanica (oggi Leonardo), ne offre indicazioni preziose.
Come fare crescere, insomma, il Made in Italy? E come costruire maggior valore economico facendo leva sui valori cari sia ai mercati che agli stakeholders delle nostre imprese? Investimenti pubblici e privati o in ricerca e innovazione, superando la tradizionale tendenza, di governo in governo, a spendere meno della media Ue sulla ricerca e sulla formazione. Ma anche un’ambiziosa strategia di politica culturale e di politica industriale che, nel contesto delle scelte europee, valorizzi il “sapere italiano”, la nostra cultura (quella dimensione “politecnica di cui abbiamo detto) e, naturalmente, anche la diffusione della nostra lingua. Senza retoriche nazionaliste. Ma con la consapevolezza delle relazioni, mediterranee ed europee, di cui una lingua come l’italiano è un prodotto esemplare.
Proprio quest’ultimo aspetto dei valori linguistici ed espressivi è stato al centro, a metà aprile, degli “Stati Generali della Lingua italiana”, organizzati al Maxxi di Roma, per iniziativa del ministero degli Esteri e della Società Dante Alighieri. E nel corso del dibattito sono stati analizzati anche agli aspetti legati al Made in Italy e alle attività industriali.
Come valorizzare, dunque, l’italiano come parte fondamentale delle nostra capacità sociali, culturali ed economiche? Si può partire da una frase di Gio Ponti, grande architetto, progettista, designer: “In Italia l’arte si è innamorata dell’industria. Ecco perché l’industria è un fatto culturale”. Ponti ha interpretato i processi di modernizzazione del Paese in una lunga stagione del Novecento, come mostrano il Grattacielo Pirelli, icona del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche una serie di oggetti di design e d’arte che hanno caratterizzato l’evoluzione del gusto italiano e dello stile di vita e la sua diffusione internazionale come prodotto culturale e industriale.
La cultura industriale, la cultura d’impresa, in altri termini, sono parti essenziali del patrimonio culturale italiano. Radici storiche e visioni del futuro. Un patrimonio ricco, complesso, vario, di creatività e originale operosità. D’immaginazione e produzione. La nostra lingua letteraria e scientifica ne rivela profonde tracce.
C’è, in questo patrimonio, la grande letteratura di Dante, Leopardi e Manzoni, tanto per fare solo pochi nomi. L’opera lirica di Verdi e Rossini. Le arti figurative che, da Giotto a Michelangelo, da Caravaggio a De Chirico e Modigliani segnano tutto il corso di un millennio di capolavori. Il teatro di Goldoni e Pirandello. Il cinema e la fotografia. Ma anche la matematica e la fisica, la chimica e l’architettura. Le tipografie e i caratteri di Bodoni e Manuzio. E il design e l’industria. Una cultura composita, ricca di intrecci e relazioni. Con la capacità di “fare cose belle che piacciono al mondo”. Una civiltà delle macchine, del lavoro, dell’intraprendenza e della creatività.
Arte e industria, dunque. Sapendo che fare industria significa fare cultura. E con un Made in Italy che ha una robusta connotazione industriale, di grande attualità, nei settori della meccanica e della meccatronica, della robotica, dell’automotive, della chimica e della farmaceutica, della gomma e della plastica, dell’avionica e dell’aerospazio, della cantieristica navale, oltre che naturalmente dell’abbigliamento, dell’arredamento e dell’agroalimentare. Che parole usare per raccontarlo?
Vale la pena ricordare un’essenziale lezione latina: “Nomina sunt consequentia rerum”. Guardiamo le res, allora. E ragioniamo sull’identità italiana, ben sapendo che “l’identità non sta nel soggetto, ma nella relazione”, secondo l’acuta riflessione di un grande filosofo francese, Emmanuel Lévinas. L’identità italiana, molteplice, dialettica, aperta, inclusiva, sta nel senso della bellezza, dell’equilibrio, della misura, in una forma che esprime una funzione e accompagna (spesso preannuncia) il cambiamento economico e sociale, il movimento, la trasformazione. Identità italiana come metamorfosi. Consapevolezza della storia. E sguardo aperto sul futuro (i documenti e gli oggetti custoditi e valorizzati dagli oltre 160 musei e archivi storici aziendali iscritti a Museimpresa, ne offrono esemplari testimonianze) una novità, una presenza sui mercati.
Senso della misura, dunque. Artigianalità. Qualità.
Artigianalità non vuol dire chiudersi nell’orizzonte della piccola bottega artigiana, comunque importante. Indica invece, in senso più ampio, un metodo del fare a mano, la precisione, la cura del dettaglio, l’attenzione per l’equilibrio tra le forme e le funzioni, un senso del prodotto curato per il singolo uso del singolo cliente. L’artigianalità applicata al grande processo industriale, alle sue nicchie a maggior valore aggiunto.
E la misura? Cosa vuol dire misura? Il senso della misura, dell’equilibrio, delle proporzioni e delle relazioni è parte fondamentale della bellezza. Per averne un’idea, si può andare a Milano, alla Biblioteca Ambrosiana e aprire le pagine del “Codice Atlantico” di Leonardo da Vinci. Lì, nelle oltre mille tavole, ci sono raffigurazioni di ingranaggi, macchine di scavo e lavoro, disegni tecnici che colpiscono per la bellezza del tratto e la sofisticatezza della tecnologia raffigurata, il senso dell’equilibrio e la forza della precisione, qualità che poi, secoli dopo, si sarebbero tradotte in tutto quello che la manifattura italiana ha saputo fare nel tempo, e che ancora oggi sa realizzare. Coerentemente, quando la Confindustria, nel giugno del ‘23 ha deciso di aprire un suo ufficio di rappresentanza a Washington, ha portato in esposizione, alla Public Library della capitale Usa, appunto i disegni leonardeschi del Codice Atlantico.
C’è una parola che, adesso, vale la pena sottolineare: design. Disegno industriale. Bellezza e funzionalità legate alla qualità della vita quotidiana, dei consumi e dell’evoluzione dei consumi. Estetica e uso degli oggetti di produzione industriale. Espressione della “cultura politecnica” di cui continuiamo a parlare. Una cultura del progetto e del prodotto e, adesso, dei servizi. Potremmo anche dire così: la qualità dell’industria italiana, la sua bellezza, la forza distintiva, la forza competitiva del Made in Italy, meritano un racconto migliore di quello che è stato fatto sino a oggi. Un racconto che esprima più compiutamente le nostre potenzialità. La flessibilità, la ricchezza, la musicalità della lingua ci vengono in aiuto. Esportare i prodotti e i servizi del made in Italy e ampliare gli orizzonti di studio e uso della lingua italiana sono parti di un identico progetto di sviluppo culturale e civile.
Ma fermiamoci ancora un momento sulla parola “bellezza”. Se non indica soltanto un insieme di valori e di fattori estetici, ma anche elementi di qualità e di funzionalità, ecco che scopriamo che, nel corso della tradizione, la bellezza ha a che fare anche con le radici della nostra coscienza civile e con quella “economia civile” di cui è stato esemplare teorico Antonio Genovesi, uno dei principali illuministi napoletani, considerato da Adam Smith, il padre dell’economia liberale, “il mio maestro”. Produttività e consapevolezza dei valori delle comunità, innovazione e solidarietà. Costruzione di ricchezza. E miglioramento degli equilibri sociali.
La bellezza dei monumenti, la bellezza del paesaggio, delle relazioni, delle città e dei quartieri, la bellezza delle aggregazioni e delle produzioni. Ma anche la bellezza delle fabbriche ben progettate, la “fabbrica bella”, cioè ben disegnata, sicura, accogliente, inclusiva, sostenibile. L’industria italiana ha dato vita e continua a far nascere e crescere “fabbriche belle” in cui lavorare è piacevole e in cui si produce meglio e con maggiore qualità. È una lezione d’esperienza e una capacità di progetto. E ragionare delle nostre parole per dire della qualità manifatturiera è un compito non solo economico, ma culturale e civile. Un’eredità storica. E un progetto futuro.