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di Carlo Cambi

Scrive David Herbert Lawerence: “La Sardegna è fuori dal tempo e dalla storia” e aggiunge: “È un'altra cosa rispetto all'Italia: è più ampia, molto più consueta, nient'affatto irregolare, ma che si perde in lontananza. Qui domina lo spazio che si traduce in distanze da viaggiare, simili alla libertà stessa.” L’autore de l’Amante di Lady Chatterley – uno dei più profondi conoscitori delle antiche civiltà italiche: dagli etruschi ai nuragici che frequentò con la curiosità del viaggiatore piuttosto che con il rigore dello studioso – racchiude queste sue impressioni in Mare e Sardegna, che è un titolo dal retrogusto di stereotipo. Perché a vedere bene la Sardegna non è mare pur essendo intimamente isola, non è – se non nell’enclave genovese di Carloforte, in quella pisana di Bosa, in quella catalana di Alghero e a Cagliari – banchina di naviganti: è uno scoglio immenso e immensamente bello su cui stanno quasi abbarbicati uomini dal tempo infinito. C’è un proverbio popolare che dice: “Porcu, hortu et conca rasa faghent sa domo”. Tutto sta lì: nel maiale, nell’orto, nell’assenza di ostentazione. Per capire fino in fondo la Sardegna bisogna esserci nati, appartenere a questa terra di foresta e di montagna, di mito antico e di vento. E non c’è nessun manifesto come questo passo di Grazia Deledda, una sarda Nobel per la letteratura che l’Italia colpevolmente dimentica, che illustra meglio ciò che sente fino in fondo l’equipaggio di questa nave di pietra: “Perché la sorte ci stronca così, come canne? Sì - egli disse allora - siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento. Sì, va bene: ma perché questa sorte? E il vento, perché? Dio solo lo sa.” Perciò le comunità stanno come i passeri d’inverno: strette per ripararsi dalla malapioggia del destino.

Del resto il territorio sardo è punteggiato dai Nuraghe e quasi tutti gli insediamenti – vengono in mente Barumini e Tiscali per dirne due tra i più affascinanti e noti – raccontano di una civiltà legata alla terra, alle greggi quasi che il nomadismo del Suprammonte o del Montiferru fossero sì attività pastorali, ma con una contenuta assenza dalle case. Si spiega così che la Sardegna abbia poche grandi città e una miriade di comunità che aggrumano la gente di campagna e fanno ostello ai pastori. Ha 316 piccoli comuni rispetto ad una popolazione di 1,6 milioni di abitanti con differenze di densità demografica davvero enormi: si passa da 37,7 abitanti per chilometro nel nuorese e nell’Ogliastra a quasi dieci volte tanto nell’area metropolitana di Cagliari. Il che spiega anche la multiformità del modello economico della Sardegna che certamente ha nel turismo, nell’alta tecnologia e nei servizi l’asse portante, ma che continua a reggersi anche grazie all’agricoltura e all’agroalimentare: basti pensare che su 170 mila imprese, 35 mila fanno riferimento a questo settore con una percentuale del 22% che è dieci punti superiore alla media nazionale dell’incidenza del settore agro e alimentare sul complesso delle attività. Del pari va notato che molte produzioni specifiche, caratteristiche dei diversi territori sardi, non hanno percorso la strada della certificazione. Viene in mente Sa Pompia, l’agrume che si coltiva a Siniscola e che è unico al mondo da cui si ricavano sia marmellate, sia dolci tradizionali, ma che restano confinati in questa parte di Sardegna. Egualmente si potrebbe dire delle cozze e delle ostriche di Olbia, oppure degli agrumi di Muravera.

Un formaggio che meriterebbe massima attenzione è sicuramente il Casizolu, il più noto è quello di Santulussurgiu, che è una pasta fiata che si ottiene dalle vacche di bue rosso del Montiferru. E il bue rosso stesso è una razza che meriterebbe attenzione. Di fatto è un incrocio di Podolica con Modicana, ottimo da latte ma anche da carne. E davvero il Casizolu in una terra di formaggi di pecora rappresenta una felice inconsuetudine. Di particolare rilievo è senza dubbio la bottarga di Cabras che al pari del tonno carlofortino e delle ormai, purtroppo, rare aragoste algheresi, rappresenta un’eccellenza assoluta del mare. Al pari delle abilità di forni e di mani dei diversi pani: da quelli rituali allo stra-famoso carasau. Ma ci sono i sospiri di Ozieri, i filindeu (sottilissimi fili di pasta), i papassinos e volendo allargare ai liquori che dire del mirto o del filu e ferrù?

Tantissime sono le occasioni di incontrare in Sardegna legami ancestrali tra prodotti della terra e specifiche comunità, ma come capita peraltro in tutta Italia la strada della certificazione è intrapresa solo per una minoranza di produzioni. Il che però non vanifica l’assunto secondo cui in ogni territorio c’è un’identificazione della comunità e dell’abilità di quella comunità nella produzione. La Sardegna attualmente conta sei DOP e due IGP. La maggioranza è legata al gregge. Va segnalato che il Pecorino Romano DOP, uno dei formaggi italiani più esportati e noti nel mondo che ha un vastissimo mercato negli Stati Uniti e in Canada, ancorché presente nella lista dei prodotti laziali, è prodotto nella stragrande maggioranza in Sardegna da latte di pecore sarde che oramai sono la razza predominante anche in continente. Parente stretto del Romano è il Pecorino Sardo nel senso che si ottiene dal latte delle stesse pecore. Ha però caratteristiche distintive precise: ha le forme più piccole, viene venduto a due diverse età di stagionatura, è a pasta semicotta mentre il Romano è a pasta cotta. Altro formaggio DOP della Sardegna è il Fiore Sardo a pasta cruda che viene di solito cagliato con caglio vegetale. Dal gregge viene anche l’agnello sardo IGP. Di particolare rilievo sono tre prodotti dell’orto: lo zafferano che viene coltivato su tutto l’areale premontano, il carciofo spinoso che è coltivato in tutta l’isola ma ha nel Campidano e nei paesi di Villasor, Nuraminis, Serramanna e Serrenti la sua patria d’elezione, e l’olio extravergine di oliva che di fatto è ubiquitario e si estrare dalle cultivar autoctone Bosana, Tonda di Cagliari, Nera (Tonda) di Villacidro, Semidana. Ma c’è un prodotto tra quelli a marchio europeo che potrebbe aprire la strada alla certificazione di altre specialità sarde: sono i Culurgionis dell’Ogliastra. Di fatto sono fagottini di pasta e patate a ricordarci che la Sardegna profuma di salmastro ma è terra.

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