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Anna Fiscale: la produzione di «Progetto Quid» trasformata per l'emergenza ma pensando anche al futuro

Fatica da uno a dieci?
«Dieci».

Difficile?
«Non facile, ma non impossibile».

Il momento più duro?
«Quando il commissario Arcuri ha parlato di mascherine a 50 centesimi senza fare distinzione di qualità non ha aiutato. La nostra è stata la sesta azienda in Italia, su 270 richieste, a ottenere la certificazione dell'Istituto superiore di sanità: non è tutto uguale».

Bilancio?
«Come qui ripetiamo da sempre: i limiti sono punti di partenza, trasformare gli scarti in risorse è quello su cui si fonda il nostro Dna. La riconversione ci ha obbligato a farci nuove competenze e il patrimonio che abbiamo imparato resterà anche dopo questa emergenza: adesso sono mascherine, chissà domani. Tutto si supera».
Anna Fiscale è una imprenditrice giovane ma per Buone Notizie è una conoscenza antica, diciamo pure la più antica di tutte. Il suo Progetto Quid - impresa sociale sostenuta da Fondazione Opes che trasformando «scarti» di tessuto in capo di moda dà lavoro e reinserimento a persone (sopratutto donne) in difficoltà - si era conquistata tre anni fa la copertina di esordio di questo inserto: allora si trattava di poche decine di dipendenti a Verona e dintorni, oggi sono 142 tra produzione e punti vendita in Italia e all'estero.

Così almeno prima dello stop.
«Ovviamente è stata una bella botta, come per tutti. Ma grazie alle mascherine la produzione è ripartita dopo sole due settimane di blocco. In cassa integrazione resta il personale dei punti vendita. Riapriremo anche quelli e guardiamo al futuro con fiducia».

Ok, ricominciamo: fare mascherine non era il vostro mestiere.
«Certo che no. Ma i tessuti sono la nostra materia prima. Così quando a marzo è arrivata la chiusura dei negozi ci abbiamo pensato subito».

Come tanti.
«Vero anche questo. Noi però, mentre da una parte siamo partiti, dall'altra abbiamo subito interpellato l'Iss per sapere quali requisiti bisognava avere per ottenere la certificazione».

E dunque?
«Arabo, all'inizio. Le norme tecniche erano comprensibili solo agli addetti ai lavori. Così ci siamo messi a studiare. Abbiamo costituito un team con un capo-progetto, Marco Penazzi, che ci ha letteralmente lavorato giorno e notte. Bisognava superare cinque test diversi, da quello sulla rimozione batterica all'altro sulla resistenza al flusso, e altri ancora. Alla fine abbiamo identificato un tessuto antigoccia e antimicrobico, 97 per cento cotone e il resto elastan, che però non ha passato l'esame. Abbiamo chiesto al nostro fornitore di modificarlo, l'abbiamo ritestato anche dopo venti lavaggi. Finchè abbiamo superato tutte le prove del laboratorio Safe e del Tecnopolo di Mirandola, in Emilia, che ci hanno anche aiutato a redigere la scheda tecnica. Credo che la nostra sia stata la prima impresa a ottenere la certificazione dell'Istituto su un tessuto lavabile».

A quel punto siete partiti?
«In realtà questa è stata solo una parte del percorso. Mentre i test andavano avanti abbiamo avviato una serie di procedure interne all'impresa: per rendere tracciabile il prodotto e per fare in modo che il nostro lavoro stesso fosse più sicuro, dotandoci a nostra volta di camici, maschere, guanti. E già prima di avere il via libera sul modello proposto all'Istituto superiore avevamo aderito a una rete di una decina di altre cooperative riconvertite per rifornire di mascherine tantissime realtà di servizi che ne avevano urgente bisogno: per esempio altre cooperative di assistenza e distribuzione pasti, ma anche catene di distribuzione, istituti, carceri. In questo dobbiamo un grande grazie anche a Lega Coop».

Poi è arrivata la certificazione.
«E lì per paradosso è arrivato anche il momento più duro: perchè a quel punto il mercato aveva iniziato a saturarsi di prodotti non certificati. In contemporanea con l'annuncio del commissario Arcuri che in accordo con Federfarma prometteva mascherine a 50 centesimi senza dire che sono quelle monouso: e c'è una bella differenza. Per fortuna poi la gente capisce».

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