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I prossimi anni saranno decisivi per accompagnare la transizione ecologica dell'economia italiana. Per farlo sarà importante fissare subito obiettivi ambiziosi, senza farsi distrarre dallo specchietto per le allodole della neutralità tecnologica. La prima versione del Pniec, che il governo italiano ha da poco inviato a Bruxelles, non va in questa direzione, come sostenuto da GreenpeaceLegambienteWWF e dall'associazione confindustriale Elettricità Futura.

Gli obiettivi del Pniec sulle rinnovabili elettriche si fermano al 65% al 2030 (la Germania punta al 100%) e si continua ad assegnare un ruolo esagerato al gas fossile, dagli impianti termoelettrici che lo usano alle infrastrutture connesse - dai rigassificatori ai gasdotti - destinate ad essere sempre più inutili con il progressivo diffondersi delle fonti rinnovabili. È incomprensibile anche il ruolo attribuito alla CCS (cattura e sequestro dell'anidride carbonica) e al nucleare, mentre è improprio quello assegnato all'idrogeno - che dovrebbe essere prodotto solo da fonti rinnovabili e, vista la limitata disponibilità, destinato solo a quei settori che non possono essere elettrificati - e ai biocarburanti. Speriamo che il percorso verso l'approvazione definitiva del Pniec possa aggiustare la rotta al piano italiano, facendo leva anche su un pieno coinvolgimento dei portatori di interesse, carente fino ad oggi.

Se l'Italia vuole raggiungere gli obiettivi del REPowerEU entro il 2030, deve realizzare nuova potenza elettrica rinnovabile per 11 GW all'anno (70% da fotovoltaico, 30% da eolico). Non sono sufficienti i tetti (solo su una parte di essi è possibile installare il fotovoltaico), né le comunità energetiche (che possono dare un contributo alla decarbonizzazione del Paese fino al 15-20% della produzione totale) ma servono soprattutto i grandi impianti industriali a fonti rinnovabili, gli accumuli elettrochimici e idroelettrici e le nuove reti elettriche.

Il problema principale per questo percorso di indipendenza del Paese non è rappresentato tanto dai negazionisti della crisi climatica, quanto soprattutto dai rallentatori delle azioni che puntano a combatterla, ben contenti della versione attuale del Pniec. In questa categoria ovviamente rientra a pieno titolo la lobby delle fonti fossili, impegnata a non lasciare quote di mercato a chi sfrutta le rinnovabili e a condizionare le politiche.

Tra i rallentatori della transizione ecologica - a volte ignari, ma ugualmente colpevoli - ci sono anche i rappresentanti delle istituzioni, come chi, nelle Sovrintendenze, contrasta l'installazione degli impianti eolici o dei pannelli fotovoltaici, anche se integrati sui tetti dei centri storici, ma che non ha fatto altrettanto a proposito di antenne paraboliche, condizionatori, stazioni radio base e pubblicità. In questa categoria rientrano gli ambientalisti incoerenti che non vogliono gli impianti indispensabili per liberarci dalla dipendenza dalle fossili, che producono quelle emissioni climalteranti che sono il principale fattore di stravolgimento paesaggistico e di perdita di biodiversità.

La transizione ecologica sta già producendo Il cambiamento delle strategie di molte imprese e la nascita di nuovi posti di lavoro. A volte sono serviti degli shock, come avvenuto con il secondo stop al nucleare ottenuto grazie alla vittoria al referendum del 2011, con cui fermammo la ripartenza delle centrali atomiche varata dall'allora governo Berlusconi. Un risultato che ha permesso ad alcune aziende elettriche attive nel nostro Paese di riorientare gli investimenti sulle rinnovabili, evitando il tradizionale baratro economico causato dall'attività delle centrali nucleari, alla base della profonda agonia della produzione di elettricità dalle centrali atomiche nel mondo.

Già oggi l'Italia può vantare 3 milioni di posti di lavoro green, stando ai dati di Fondazione Symbola e Unioncamere. Possiamo andare molto oltre ma serve una rivoluzione culturale capace di rovesciare il ragionamento che fanno in genere le organizzazioni sindacali, frenando ogni cambiamento, e che i rallentatori della transizione ecologica usano in modo strumentale. Non serve a nulla, infatti, mettere a confronto i numeri del lavoro esistente, da difendere a prescindere in modo non lungimirante, con quelli futuri se si pratica la riconversione ecologica, perché la scelta conservatrice non produce nessuna difesa del posto di lavoro, ma solo una costosa e frustrante assistenza, come dimostrano bene le aree industriali siciliane o il Sulcis. Chi oggi fa ricerca e lavora per industrializzare la soluzione tecnologica ai problemi ambientali e climatici, domani la venderà in tutto il mondo. Non lasciamo alla manifattura cinese, statunitense o tedesca la possibilità di occupare questo spazio. Facciamolo noi. Ma serve quella volontà politica che è mancata fino ad oggi e che sollecitiamo al governo Meloni, come abbiamo fatto con tutti i precedenti esecutivi.
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Sulla transizione è il momento di fare scelte ambiziose | Green&Blue di La Repubblica

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