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A raccontarlo non sembrerebbe vero: 780 chilometri di coste, eppure il pesce più famoso della Calabria arriva dal grande nord e non è neppure fresco! È questa meravigliosa regione contesa tra Tirreno e Ionio, aggrappata all’Appennino di cui la Sila è lo “scoglio” più vasto e imponente, costituita da enclaves etniche che vanno dalla cultura arbereshe a quella dei paesi grecanici passando per le stratificazioni normanne, l’archetipo di come i dati antropici definiscano i prodotti enogastronomici e di come i luoghi siano sintetizzati nelle inflessioni gustative e nelle pratiche agricole e artigianali che danno origine ai dialetti gastronomici. A pensarci bene il made in Italy, tanto acclamato, deve tutto alla Calabria. Per i romani era la terra dei Bruzi, ma ben prima per i greci era la regione abitata dai discendenti degli enotri, i produttori del vino, e cioè i Vituli, “oi italoi” gli adoratori del bue insediati nell’istmo di Catanzaro. Erano gli italiani! Si spiega così che nella geografia delle produzioni a marchio europeo la Calabria sia una positiva eccezione. Intanto ha più DOP (origine protetta che significa che quel prodotto si fa lì e solo lì) e per la precisione 13, che IGP, prodotti di cui si certifica l’originalità del processo, che in Calabria sono 9. Ha un prodotto condominiale che è Il Caciocavallo Silano – si produce in cinque regioni – che si potrebbe anche definire il re delle DOP casearie del nostro meridione. Non a caso però il consorzio ha radici a Camignatello Silano a dirci che le produzioni calabresi sono radicate nei piccoli comuni, nei borghi, trovano ragion d’essere proprio nella comunità che coltiva è attiva e produce perpetuando la tradizione nell’innovazione. Le tredici calabresi hanno casa nei piccoli centri: Caciocavallo Silano, Pecorino Crotonese, Pecorino del Monte Poro, Extravergine dell’Alto Crotonese, di Bruzio e di Lametia tre DOP di oli d’oliva che interpretano territori e cultivar assai differenti, Bergamotto di Reggio Calabria – Olio essenziale, Liquirizia di Calabria, Capocollo di Calabria, Pancetta di Calabria, Salsiccia di Calabria, Soppressata di Calabria. Ancorché quasi tutte portino la denominazione Calabria, le radici di questi prodotti stanno infisse nei territori che sono comuni al di sotto di 5 mila abitanti perché sono prodotti d’immediata derivazione rurale. Lo stesso vale per le 9 IGP a esclusione del Torrone di Bagnara che è l’unico prodotto “metropolitano” di quelli a marchio che si fanno tra Ionio e Tirreno. Proprio le IGP rimandano in Calabria ai campi: così l’extravergine “regionale”, la Cipolla di Tropea, le Clementine, le Patate silane e poi il Finocchio di Isola di Capo Rizzuto e il Limone di Rocca Imperiale. A significare questa “forza” dei territori rurali calabresi c’è una storia che non riguarda un prodotto a marchio ma che è emblematica di come l’interazione tra dotazioni naturali del territorio, abilità e vocazioni economiche sia alla base del consolidarsi di una tradizione enogastronomica. Nel viaggio in Calabria partiamo da qui.

Mammola, meno di 2500 abitanti, guardo lo Ionio dalle Serre calabresi e l’Aspromonte eppure è la capitale dello stoccafisso. La ragione? La qualità dell’acqua. Il pesce stocco divenuto grazie al Concilio di Trento il cibo della penitenza dei cattolici – l’arcivescovo di Upsala Olaf Maanson fu il primo “inflencer” gastronomico convincendo i padri conciliari che i merluzzi delle Lofoten ben potevano rispondere alle aringhe di Lutero – e per quanto il mercante veneziano Pietro Querini ne invocasse la prima importazione fin dalla metà del 400 furono i grandi navigatori tanto tirrenici quanto adriatici a diffonderne il commercio. Succedeva così che i pesci bastone arrivassero a Napoli capitale borbonica e poi a Pizzo Calabro, da qui a dorso di mulo fino a Mammola dove gli artigiani avevano imparato a trattarlo con l’acqua delle Serre e trasformarlo da arido bastone in profumatissima pietanza. Lo stocco di Mammola così non solo è ricetta, ma è prodotto peculiare dacché ci vogliono sei giorni, tanti quanti ne conta la Creazione per lavorarlo: spinarlo, bagnarlo, spurgarlo, infine renderlo morbido e bianco, con carni sode e profumate. Frutto dell’incontro di tre fattori: la posizione geografica di Mammola che sta sul crinale tra lo Ionio e il Tirreno, le abilità artigiane consolidatesi nel borgo, il patrimonio naturale delle acque di montagna. La stessa impronta si riconosce in quello che forse è l’insaccato più famoso di Calabria: la ‘nduja. Ora non v’è norcineria che non la produca da Laino Borgo, aggrappato al Pollino e stazione di confine con la Basilicata, a Scilla che si tuffa nello Stretto, eppure nessuno fa la ‘nduja come a Spilinga. Sono meno di 1400 anime aggrappate al monte Poro che è una specie di onfalos del gusto calabrese. Volendo ci si può tuffare da qui nel golfo di Tropea sapendo che la famosa cipolla rossa, dolce, aulente cresce in tutto il vibonese, ma è proprio nei campi fertili alle pendici del Poro che trova la sua culla di coltivazione. È la stessa aria che serve per la ‘nduja. Sovente si fa l’errore di ritenere che i prodotti di maggior fama e di maggior aggancio territoriale siano ancestrali. Non è così per la ‘nduja. Non si conosceva il peperoncino prima del 1493 quando Colombo lo riporta dal Centro America, ma solo 80 anni dopo il Mattioli ne dà una compiuta descrizione nel suo trattato di botanica come pepe d’India. Come per lo stocco il peperoncino arriva a Napoli ed è lì che comincia a insaporire – esattamente come in Messico – la cucina povera tanto che prima Corrado Alvaro e poi Ippolito Cavalcanti (siamo agli inizi dell’’800) lo magnificano nei ricettari di tradizione. In Calabria e nel vibonese in particolare il peperoncino trova il suo habitat. A Spilinga, dove s’era usi fare una salsiccia tipo la pezzente della vicina Basilicata con le parti povere del maiale insaccate nel budello cieco. Vuole una semi-leggenda che fu Gioacchino Murat – re delle due Sicilie e vediamo quanto Napoli entra in queste vicende – a ordinare la produzione in grande quantità di un salume simile all’andouille francese da distribuire ai poveri fatto con le trippe. A Spilinga la cosa dette lavoro a partire dai primi dell’800 e i calabresi scopersero che aggiungendo gran quantità di peperoncino molto coltivato sul Poro al grasso di scarto del maiale si poteva evitare l’irrancidimento. Certo la ‘nduja di oggi è assai diversa da quella rudimentale di allora che subiva anche una leggera affumicatura (tutt’oggi c’è chi lo fa), ma per gli scherzi della storia oggi i due salumi spalmabili più famosi d’Italia si abbracciano nella biografia di Murat, sconfitto a Tolentino nelle Marche, sepolto a Pizzo Calabro, ricordato con due insaccati!

L’incidenza del territorio, il valore della comunità, la necessità del borgo in rapporto alla qualità del prodotto in Calabria sono riconoscibili in tutta l’antologia dei sapori. Stando al peperoncino, la funzione che Diamante borgo d’incanto sospeso tra la riviera dei Cedri e l’isola di Cirella ha svolto e svolge è fondamentale perché ha offerto una lettura culturale al diavolicchio. Vale lo stesso per il bergamotto che da Siderno alla gran parte della Locride ha tenuto viva l’agrumicoltura che tocca il suo vertice con la Clementina di Calabria di cui la piana di Sibari è territorio di elezione con Corigliano che fa da fulcro. E così la liquirizia che è uno dei prodotti più esclusivi di questa terra. Sono oltre 200 i Comuni interessati lungo tutta la dorsale appenninica, ma la direttrice Corigliano-Rossano è la culla dove non solo si pratica l’estrazione ma si è consolidata la capacità di trasformazione. I fichi che sono indispensabili nei dolci d’intonazione albanese, sono il vanto del cosentino e sono una lavorazione prevalentemente al femminile. Gli extravergine che hanno tre zone di elezione (Bruzio, Lamezia e alto Crotonese) sono il prodotto del paesaggio. Questa filiera di abilità-territorio-comunità diventa indispensabile nella produzione tanto di salumi come di formaggi: nel caciocavallo di Ciminà, nel pecorino crotonese, per gli insaccati come la pancetta, la soppressata e la salsiccia. E si eleva a dolcezza pensando che a Bagnara il torrone è il genius coci!

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